“Mangiare italiano è mangiare sano” questo è uno slogan che ha contraddistinto da sempre le nostre scelte alimentari convinti che solo ciò che viene prodotto In Italia sia fonte di salute. La domanda però è ma quello che compriamo è davvero tutto italiano? O per meglio dire è veramente il risultato della lavorazione di prodotti italiani? Ci piacerebbe molto pensarlo ma la realtà è ben diversa per mille motivi, ad iniziare dal fatto che siamo parte del mercato mondiale non solo come singolo Paese ma anche come membro della UE, di conseguenza dobbiamo accettare le restrizioni imposte dalle politiche dell’Unione Europea ed in parte anche in virtù di questa scelta, i prodotti ricavati in Italia non sono sufficienti a coprire la domanda.
Inoltre non dobbiamo dimenticare che il nostro meraviglioso Paese, per tutti un vero teatro all’aperto di bellezze naturali, negli ultimi decenni è molto cambiato e laddove un tempo c’erano aree coltivabili, dove i nostri antenati producevano e raccoglievano i frutti della terra, oggi ci sono bellissime costruzioni, villaggi e paesi, con il risultato che le terre coltivabili si sono ridotte di 5 milioni di ettari, passando da 18 milioni di ettari di terreno lavorati nel 1951 a 12.598.161 di ettari del 2021, mentre, contemporaneamente, la popolazione, come possiamo vedere dal grafico allegato è cresciuta passando, da 47.515.537 abitanti del 1950 a 59.030.133 abitanti del 2021.
Questo fenomeno è descritto dal Ministero dell’Agricoltura che sul proprio sito precisa che:
– Dagli anni ’70 la superficie coltivata in Italia è diminuita del 28%;
– 5 milioni di ettari di superficie agricola persa negli ultimi 30 anni, pari a oltre 80 campi da calcio al giorno;
– Una superficie equivalente a Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna messe insieme;
– Auto approvvigionamento alimentare attuale: 80-85%;
– Dal 1950 ad oggi la popolazione è cresciuta del 28%, la cementificazione del 166%;
– La continua perdita di terreno agricolo porta l’Italia a dipendere sempre più dall’estero per l’approvvigionamento di risorse alimentari;
– Ogni giorno in Italia vengono impermeabilizzati 100 ha di terreni naturali pari a oltre 80 campi da calcio;
– Dagli anni ’50 ad oggi sono stati impermeabilizzati 1,5 milioni di ettari – una superficie pari alla Calabria (ISPRA);
– Il 6,7% è costituito da superfici edificate (ISTAT);
– La Pianura padana, ovvero l’area agricola più vasta e produttiva della penisola italiana, ha una percentuale media di superfici edificate pari al 16,4% del territorio (ISTAT);
– Nella classifica delle regioni “più consumate”, secondo i dati ISPRA 2015, al primo posto Lombardia e Veneto (circa il 10%);
– Monza e Brianza ai vertici delle province più cementificate. I comuni delle province di Napoli, Caserta, Milano e Torino oltrepassano il 50%, raggiungendo anche il 60%.
Alla luce di questi dati, parlare di prodotti interamente ricavati da lavorazione di risorse nazionali è completamente fuori luogo e lo abbiamo appreso anche durante questa fase della guerra Ucraina-Russia dove, all’inizio del conflitto, è aumentato il costo della farina, indispensabile per produrre la pasta italiana.
Non solo nella pasta non siamo autosufficienti, non lo siamo neanche in altri prodotti come, ad esempio, le carni, il pesce, lo zucchero, tutti i prodotti che vengono importati, in percentuale molto significativa, da altri Paesi. Per quanto riguarda le carni, ad esempio, ad eccezion fatta dei polli, che sono interamente allevati in Italia, ne importiamo oltre il 25 per cento, per non parlare del pesce dove, per l’importazione delle conserve ittiche, arriviamo addirittura alla soglia del 95%. Siamo autosufficienti, oltre che negli allevamenti avicoli, solo nella produzione di alcuni prodotti come la frutta fresca, le uova, i pomodori, il riso e il vino che, come è noto, è una delle principali eccellenze del nostro Paese.
Per il resto dipendiamo dall’estero. Infatti, per fare degli esempi su due prodotti che rappresentano gli elementi essenziali della nostra cucina, quali la pasta e l’olio, per quanto riguarda il primo, a fronte di un fabbisogno di 39 milioni di tonnellate annue di grano, ne importiamo 20 milioni dall’estero. Per il secondo, nonostante il clima e la conformazione del territorio del nostro Paese, che strutturalmente è ideale per la cura degli olivi, ne importiamo dalla Spagna, dalla Grecia e dai Paesi del Nord Africa il 60% del nostro fabbisogno.
In questa direzione facciamo nostre le richieste provenienti dalle varie organizzazioni di categoria che pongono l’attenzione sulla necessità di potenziare le produzioni per coprire la mancanza del 64% del frumento tenero e del 40% del grano duro destinata alla produzione di pasta, nonché del 25% del latte e di quasi il 50% della carne che utilizziamo sulle nostre tavole.
Altro discorso riguarda la trasformazione dei prodotti che vengono importati dove, la produzione è abbondantemente superiore rispetto alla richiesta interna.
Questo significa che l’Italia non deve essere classificata come Paese produttore di beni nella loro completezza, ossia composti dalle materie prime al prodotto finale, ma come luogo di trasformazione dei prodotti che vengono importati dall’estero, lavorati da noi e venduti nei mercati mondiali. L’esempio più clamoroso è proprio la pasta che, essendo la nostra nazione, tra i produttori di tutto il pianeta, al primo posto assoluto, ed essendo un prodotto che esalta la nostra tradizione e la nostra cultura culinaria, viene lavorata in Italia con l’utilizzo di farine provenienti da altri Paesi e, visto che se ne produce oltre il 200% in più di quella che è la richiesta interna, viene esportata nel resto del mondo.
Quello che cambia è la percezione del prodotto che utilizziamo nella nostra alimentazione, perché se è vero che siamo abituati a considerarlo made in Italy, in realtà dobbiamo imparare a valutarlo come il risultato di un prodotto lavorato in Italia ma con l’utilizzo di beni provenienti dal resto del mondo.
Abbiamo appena visto quindi che, viste le nostre carenze, molti prodotti li acquistiamo all’estero, al contrario, sviluppando questo discorso, si può anche stilare una classifica di quelli che sono i prodotti dove siamo autosufficienti e che esportiamo: questi, oltre alla pasta, sono compresi tra i vari tipi di formaggi, la cui produzione supera la richiesta interna del 134%; i vini, di cui la produzione del vino spumante supera il 414% la richiesta nazionale, mentre quella dei vini da tavola il 197% e quella dei vini top il 150%; la frutta fresca il 128%, la frutta trasformata il 193%; le uova il 149%; il pomodoro trasformato il 227%; il riso il 328%.
Per il resto, essendo la produzione nazionale insufficiente, ci avvaliamo dei beni importati.
In questo rapporto di mercato, stilando una bilancia alimentare, possiamo dire che oggi L’Italia, avendo le esportazioni di cibo e bevande nazionali superato le importazioni, in particolare, le importazioni attualmente sono di circa 25 miliardi, mentre le importazioni sono al di sotto dei 23 miliardi di euro, è un Paese autosufficiente.
Contemporaneamente, dobbiamo sottolineare come la qualità e i valori custoditi dall’agricoltura italiana sono testimoniati dalle produzioni riconosciute tra DOP, IGP e STG. In merito, l’Italia è al primo Paese in Europa per numero di marchi riconosciuti. Secondo il Rapporto Qualivita 2018, essa vanta, infatti, 822 marchi di indicazione geografica
Se il dato del bilancio alimentare e l’orgoglio di essere i depositari della qualità alimentare europea sono il nostro vanto, proprio per continuare ad assicurare questo risultato, non possiamo non invitare tutte le organizzazioni del settore e la classe politica in generale a porre l’attenzione sulla risoluzione di un problema strutturale del mercato mondiale che è costituito dalla falsificazione del Made in Italy.
Quando parliamo del falso Made in Italy, ci vengono in mente prodotti come la mozzarella, che viene imitata e falsificata in tutto il mondo a cominciare dagli Stati Uniti, per non parlare del Parmigiano Reggiano, della Grana padano, imitati anche nei nomi e allora ci troviamo a leggere in giro per il mondo il Parmesan o il Parmesao o Reggianito, tutti prodotti che non hanno nulla a che vedere con la nostra tradizione.
La lista dei prodotti contraffatti si potrebbe allungare dagli affettati come la mortadella ai salami, dai sughi come il pesto genovese ai vini come il prosecco e il Chianti e tanti altri ancora, un danno che il nostro Paese subisce costantemente e che costituisce una grave una fonte di perdita economica e occupazionale che le nostre forze politiche hanno l’obbligo di affrontare in maniera energica e risolutiva per assicurare al nostro Paese il ruolo e il posto che merita.
Sabrina Greci