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11 Ottobre 2024
Consumatori Economia

Quando il cervello entra in “modalità shopping”. Come scelgono i consumatori

Lo sguardo del consumatore e l’interazione davanti a uno scaffale del supermercato, anche davanti ad un solo prodotto o brand, è una situazione emblematica e anche tra le più complesse della shopping experience. Emblematica perché rappresenta il momento culminante della shopping experience e della decisione di acquisto. Complessa perché richiede, da parte dei clienti, uno sforzo cognitivo intenso, determinato dalla necessità di acquisire ed elaborare in poco tempo le informazioni, contenute nello scaffale, necessarie per completare la scelta (Mariano Diotto, brand strategist e neuromarketing expert). Lo shopping è considerato anche un’attività utile, spesso piacevole e a volte terapeutica. Uno studio scientifico ha rilevato che lo shopping “calma l’ansia, riduce lo stress, aumenta l’autostima e offre molti vantaggi dal punto di vista psicofisico”. Lo shopping sembra quindi agire su due leve cognitivo-emozionali contrapposte: da un lato, è responsabile degli stati di stress e di ansia prodotti dal carico cognitivo della ricerca dei prodotti e del processo decisionale di acquisto; dall’altro, innesca stati emozionali dopaminici associati all’esplorazione nel punto di vendita e al piacere che si prova nella ricerca dei prodotti e dei brand.
Per rappresentare il più fedelmente possibile i processi di scelta del consumatore, occorre quindi mettere a punto un modello d’analisi che definisce alcune configurazioni di prodotto sulla base di diversi mix di attributi. Andrea Ordanini, professore ordinario presso il dipartimento di Marketing dell’università Bocconi di Milano e vicedirettore del Cermes Bocconi, diede il compito a 30 gruppi di studenti dell’università Bocconi di osservare il comportamento dei consumatori di fronte agli scaffali di diversi supermercati. Ciascun gruppo si sarebbe occupato di un prodotto diverso. “Al termine della ricerca”, puntualizza Ordanini, “siamo giunti a teorizzare che a spingere il consumatore a scegliere un prodotto/servizio non è una valutazione del fatto che abbia una o più caratteristiche desiderabili, bensì una valutazione di come questi attributi si combinano fra loro. Quello che conta, in altre parole, non sono i singoli ingredienti, ma la ricetta”. La ricerca ha quindi evidenziato come la scelta di un prodotto, piuttosto che un altro, molto spesso è effettuata in seguito a valutazioni più sommarie di quelle che comunemente si tende a presupporre siano alla base dell’acquisto.
In termini neuropsicologici, le preferenze si formano grazie ai fenomeni psicologici d’apprendimento, d’acculturazione e di conformità sociale. Queste si originano in strutture cerebrali specifiche, influendo in diversi contesti: da quelli sociali, come le interazioni e le relazioni con gli altri, fino ad ambiti economici e di consumo come le decisioni e le intenzioni d’acquisto. In altre parole, l’individuo genera comportamenti tesi a massimizzare, consolidare o acquistare dei vantaggi che vengono procurati dalle interazioni con beni o altri soggetti nel mondo esterno. I sistemi autonomi che prendono parte ai processi decisionali influenzano fortemente il comportamento degli individui, creando degli schemi fissi per l’acquisto. Questa semplice osservazione solleva l’importante questione di come, se un tempo le nostre preferenze su cibo e bevande erano controllate fondamentalmente da meccanismi basati sull’opportunità biologica (mangio e bevo quello che è meglio per me), al giorno d’oggi queste opportunità biologiche si intrecciano con molti livelli di influenza sociale. In sostanza, scegliamo quello che mangiamo e beviamo non solo perché fa bene a me, ma anche in funzione di quello che dicono gli altri.
L’interessamento del Sistema Nervoso Centrale (SNC) e, in particolare, delle zone cerebrali attivate durante l’esecuzione di una decisone o di un acquisto, nasce all’inizio degli anni 2000, periodo nel quale risale il primo esperimento nella storia del neuromarketing. Ispirandosi a una vecchia campagna pubblicitaria della Pepsi, Read Montague, un neuroscienziato del Virginia Tech Carilion Research Institute, applicò le tecniche della disciplina di sua provenienza allo studio della brand identity.
Montague predispose un tomografo e una risonanza magnetica. Poi suddivise i partecipanti in due gruppi. A tutti fece bere un bicchiere di Pepsi e uno di CocaCola, ma solo a quelli del secondo gruppo rivelò di quali bevande si trattasse. I risultati furono incredibili: i partecipanti del primo gruppo, quelli che erano stati tenuti all’oscuro, dimostravano di preferire il gusto della Pepsi, sia dichiarandolo sia evidenziando, durante il suo consumo, una maggiore attività della regione del cervello deputata all’elaborazione del gusto. I partecipanti del secondo gruppo, invece, durante il consumo della CocaCola mostravano una reazione molto più forte nella corteccia prefrontale mediale, quella zona del cervello dedicata al discernimento.
L’interpretazione dell’esperimento era chiara. Tra la percezione della marca e l’effettivo godimento della bevanda, alla fine prevaleva la prima. Nonostante fosse meno buona della Pepsi, la CocaCola scatenava un riconoscimento più forte nella mente del consumatore. Era questa la prova scientifica della supremazia del brand sul prodotto. È un chiaro esempio questo di brand personality, un insieme di caratteristiche umane attribuite archetipicamente a una marca. Questa personalità rappresenta un valore aggiunto qualitativo che un brand guadagna, oltre ai suoi vantaggi funzionali.
Dal 2002, grazie ad Ale Smidts, professore di Marketing Research della Rotterdam School of Management, il neuromarketing si è dimostrata una disciplina molto potente ed utile in questo ambito. Unendo il marketing alla psicologia e utilizzando gli strumenti delle neuroscienze, permette di osservare cosa accade nel cervello durante l’esposizione e il contatto con un particolare prodotto, brand o messaggio pubblicitario, e individuare, così, i meccanismi cerebrali che guidano il comportamento d’acquisto degli individui. La percezione del mondo fisico varia a seconda della tendenza della persona a gestire la situazione, di come quest’ultima si collega alle sue esperienze passate e di un numero indefinito di altre variabili. Le persone, infatti, pur vivendo le medesime emozioni, coltivano poi sentimenti diversi.
È qui che entrano in gioco i brand. Attraverso lo storytelling, il content marketing, la creatività, i funnel e tutte le possibili tecniche e strategie del neurobranding, i brand mirano ad innescare un’emozione che ha come obiettivo la sedimentazione e la memorizzazione di un sentimento. Infatti, lo scopo primario è che i consumatori sì acquistino i prodotti guidati da un’emozione, ma che a questi attribuiscano un sentimento positivo e duraturo. Diventa inoltre di primaria importanza, in un’ottica di neuromarketing, indagare e perseguire una brand personality, citata precedentemente, dato che aiuta l’azienda a modellare il percepito emozionale dell’audience. Questa, se costruita correttamente e in modo efficace, suscita una risposta emotiva in uno specifico segmento di consumatori, producendo in loro azioni positive, come il riconoscimento, l’attribuzione di valore e infine la decisione di acquisto.
Abbiamo quindi visto che quando il cervello entra in “modalità shopping”, che inizia con la decisione di comprare dei prodotti accompagnata dall’esplorazione dei reparti dei supermercati, al suo interno si innescano e si susseguono moltitudini di sotto processi decisionali inconsci, spesso contrastanti. Tra questi troviamo il pregiudizio rispetto alle marche e ai prodotti, la fiducia nelle proprie competenze di acquisto acquisite che si traducono in comportamenti automatici, la necessità di soddisfare un bisogno seguita infine dal desiderio di emulazione. Noi crediamo che le nostre decisioni siano consapevoli, ma i dati delle ricerche mostrano come la coscienza in realtà si manifesti solo nella fase finale della decisione.

Federica Amorosini

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