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16 Giugno 2025
Il blackout iberico, la fragilità delle reti europee e la lezione italiana che non possiamo più ignorare
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Il blackout iberico, la fragilità delle reti europee e la lezione italiana che non possiamo più ignorare

Lo scorso maggio, un blackout su larga scala ha colpito la penisola iberica, lasciando milioni di cittadini di Spagna, Portogallo e parte della Francia improvvisamente senza elettricità.

Un evento che, a distanza di settimane, merita non solo una lettura tecnica, ma anche una riflessione politica e culturale sulla transizione energetica che l’Europa sta affrontando con crescente fretta, e con altrettanta superficialità.

Rivedere i criteri di protezione del sistema

Non si è trattato di un semplice disservizio. Il blackout è stato il sintomo evidente di una rete elettrica che non ha retto l’urto di un cambiamento profondo e ancora mal gestito: la trasformazione del mix energetico, con un aumento massiccio delle fonti rinnovabili non programmabili – in primis solare ed eolico – senza un contestuale adeguamento delle infrastrutture di rete e dei protocolli di protezione.

Secondo quanto emerso da diversi media spagnoli, tra cui l’autorevole agenzia Efe, già dal gennaio scorso il gestore della rete elettrica spagnola, Red Eléctrica de España (REE), aveva inviato al Governo un documento tecnico nel quale si suggeriva una revisione urgente dei criteri di protezione del sistema.

Quel documento, oggi al centro dell’interesse giornalistico e istituzionale, segnalava che i protocolli in uso datano al 1996, quando il contesto energetico era profondamente diverso.

La crescita esponenziale delle rinnovabili, sosteneva REE, avrebbe reso necessario un aggiornamento per evitare “comportamenti imprevisti” delle protezioni di rete in caso di squilibri.

Il comitato d’indagine sulle cause del blackout

Eppure, nulla è stato fatto. Il ministero della Transizione Ecologica spagnolo, guidato da Teresa Ribera e con la vicepremier Sara Aagesen in prima linea, ha dichiarato di aver “preso in considerazione” le proposte, ma di averle collocate in un orizzonte temporale di cinque anni.

Una dichiarazione che, a posteriori, suona come una sottovalutazione grave del rischio.

E che si aggrava ulteriormente con la notizia, emersa in questi giorni, che il Governo ha deciso di escludere le principali compagnie elettriche dal comitato d’indagine sulle cause del blackout.

Una scelta discutibile, che solleva interrogativi sulla volontà di affrontare il problema con realismo tecnico, invece che con logiche di controllo politico e autoreferenzialità burocratica.

L’Italia antepone la sicurezza garantendo la stabilità

Ma mentre la Spagna scopre – troppo tardi – la vulnerabilità della propria rete, c’è un Paese che ha sempre anteposto la sicurezza alla velocità: l’Italia.

Spesso accusata di essere eccessivamente lenta, intrappolata in un groviglio di norme e procedure, l’Italia ha invece costruito una rete elettrica resiliente proprio grazie alla sua cultura della precauzione.

Ogni nuovo impianto rinnovabile, prima di essere allacciato, viene sottoposto a valutazioni tecniche stringenti, simulazioni di impatto e limiti precisi all’immissione in rete.

Terna, i distributori locali e le normative CEI hanno stabilito regole che, seppur complesse, hanno evitato fino ad oggi situazioni critiche come quella iberica.

È tempo di dirlo chiaramente: il modello italiano funziona, e non è più solo una scelta nazionale – è un esempio europeo.

La nostra prudenza tecnica, spesso mal compresa dai decisori politici o dai media, è oggi ciò che sta garantendo la stabilità di un sistema complesso come quello energetico nazionale.

E mentre molti gridano allo “snellimento” dei procedimenti, noi tecnici sappiamo che non si può parlare di semplificazione senza distinguere tra ciò che è superfluo e ciò che è essenziale alla sicurezza del sistema.

L’energia pulita è il futuro ma va gestita con disciplina

Ma c’è un secondo rischio che incombe dopo eventi come quello spagnolo: il ritorno dell’isteria collettiva contro le fonti rinnovabili.

È una tentazione pericolosa, che la nostra storia conosce bene.

Dopo il disastro di Chernobyl, l’Italia – spinta da un’ondata emotiva – ha chiuso la porta al nucleare, rinunciando a una filiera tecnologica che aveva raggiunto alti livelli di competenza.

Dopo la tragedia del Vajont, l’opinione pubblica ha guardato con sospetto persino all’ingegneria idroelettrica, dimenticando che non fu la diga a cedere, ma la montagna.

Ora rischiamo di compiere lo stesso errore con le rinnovabili. Il blackout spagnolo non deve diventare il nuovo Chernobyl del fotovoltaico.

L’energia pulita è il nostro futuro, ma va gestita con disciplina, visione e rigore tecnico, non idolatrata e nemmeno demonizzata. La transizione energetica è un’opera ingegneristica, non un processo mediatico.

Ecco perché il nostro Paese, con la sua solida tradizione ingegneristica, il suo corpo normativo evoluto e una rete elettrica robusta, può e deve giocare un ruolo guida.

L’Italia ha già dimostrato di saper reggere l’impatto delle rinnovabili senza sacrificare la stabilità. Ora ha il dovere di trasformare questa esperienza in un modello per l’Europa, rifiutando tanto le imposizioni ideologiche quanto le scorciatoie tecnocratiche.

La transizione non si arresta. Ma va guidata. Con competenza, equilibrio e, soprattutto, memoria.

Francesco Carbone

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