I cambiamenti climatici in senso stretto sono stati definiti come variazioni anormali delle condizioni fisico-atmosferiche, più intense di quelle che si osserverebbero in natura. Si traducono in anomalie nell’andamento delle stagioni, nel livello delle temperature, nelle precipitazioni medie: tutti fenomeni in grado di modificare caratteristiche biofisiche degli ecosistemi marini e terrestri che ci circondano e costituiscono il contesto in cui tutti gli esseri viventi conducono la loro esistenza.
Fig.1. I grandi impianti industriali in Europa rientrano in larga misura nel sistema EU-ETS, il maggiore sistema internazionale per lo scambio di quote di emissione di gas serra al mondo.
Ma i cambiamenti climatici riguardano anche la società in cui viviamo per almeno due ragioni: la prima è che, se i gas serra che li determinano dipendono da determinati modelli di produzione e consumo, allora possono essere considerati oggetto di responsabilità almeno in parte dipendenti da scelte consapevoli di tipo sociale ed economico; la seconda è che possono modificare le società in cui viviamo attraverso i loro inevitabili impatti fisici che comportano conseguenze su salute, abitudini di vita, sistemi di produzione, valori patrimoniali.
I modelli economici
Per questo diversi economisti hanno cercato di analizzare le conseguenze sociali ed economiche dei cambiamenti climatici. Tra i più celebri William Nordhaus, premio Nobel per l’economia 2018. Secondo Nordhaus, per scegliere una politica climatica soddisfacente occorre svolgere un’analisi costi-benefici che sia intergenerazionale e possibilmente integrata. In che senso? Egli osserva che esistono almeno tre gruppi di fenomeni da considerare: le dinamiche biologiche e climatiche, quelle economiche, e quelle sociodemografiche, tecnologiche e di intensità emissiva. Il primo gruppo può essere ulteriormente suddiviso in ciclo del carbonio e sistema climatico. Nordhaus considera che la crescita della popolazione e il progresso tecnologico siano sostanzialmente indipendenti dalle scelte delle nostre società, mentre sostiene che siamo in grado di scegliere il nostro tasso di risparmio e lo sforzo che intendiamo mettere nel ridurre le emissioni di CO2.
Ma qual è l’obiettivo razionale per la nostra società, e cosa potrebbe comportare per noi raggiungerlo? Secondo Nordhaus, ciò a cui bisognerebbe tendere è il benessere di tutte le generazioni successive alla nostra (un valore cumulato, che somma il benessere di tutti coloro che verranno dopo di noi). Il benessere futuro è talmente importante che dovremmo considerarlo quasi allo stesso modo del nostro benessere attuale: in termini finanziari questo significa che, a fronte dei nostri investimenti per il benessere delle generazioni future, chiediamo un rendimento molto basso (che si chiama “tasso di sconto sociale”) sulla cui entità si discute molto, ma sarebbe in ogni caso inferiore al 2%: decisamente meno di quanto renderebbe allettante un qualsiasi altro investimento sui mercati finanziari.
Se questo fosse vero, saremmo molto preoccupati per gli impatti dei cambiamenti climatici sul benessere dei nostri discendenti. In termini economici, questa preoccupazione si esprime attraverso il concetto di “costo sociale del carbonio”: in una società altruista come quella descritta da Nordhaus (quindi preoccupata per i destini delle generazioni future), il “costo sociale del carbonio” sarebbe molto elevato; in una società egoista (relativamente indifferente al benessere delle generazioni future), questo costo sarebbe decisamente più basso.
Il costo sociale del carbonio
In ogni caso, il “costo sociale” del carbonio è uno strumento estremamente efficace per decidere se investire nella riduzione delle emissioni di gas serra: se gli investimenti sono più costosi del livello del “costo sociale del carbonio” in una società, non vale la pena di realizzarli; se sono meno costosi, sarà vantaggioso investire. Quindi, se il “costo sociale del carbonio” è alto (come avviene nella società “altruista” di Nordhaus), ha in genere più senso investire per ridurre le emissioni di CO2.
Stimare il “costo sociale del carbonio” in una società è un ottimo stratagemma per determinare la dimensione di una tassa sulle emissioni di CO2 (chiamata anche “carbon tax” o “prezzo” della CO2). Il risultato di una stima di questo tipo, tentata da Nordhaus, è rappresentato nella figura qui sotto.
Fig.2. Stima dell’andamento del prezzo per tonnellata delle emissioni di CO2 per diversi scenari climatici corrispondenti a diversi aumenti di temperatura (fonte: Nordhaus).
In sostanza, una “carbon tax” serve a rendere visibili i costi associati all’emissione di una tonnellata di CO2 a chi la emette: se viene applicata riduce il margine di profitto o di beneficio atteso dalla produzione di quei beni o servizi che richiedono l’uso di combustibili fossili per la società nel suo complesso, ma anche per l’impresa produttrice.
Se i costi di produzione sono troppo elevati, alcuni investimenti non sono più sostenibili e diventano economicamente insensati. Quindi una “carbon tax” serve a incorporare il costo sociale del carbonio nelle decisioni di investimento e in generale di condotta sia per i governi, sia per le imprese. Modelli diversi portano a previsioni diverse, in base ai parametri considerati e all’incertezza, tuttavia, modelli come quello che abbiamo richiamato (chiamato DICE) hanno permesso di calcolare un “costo sociale del carbonio” compreso tra i 100 e i 230 euro a tonnellata di CO2. In questo senso, gli investimenti che permettano di abbattere una tonnellata di CO2 con una spesa più bassa di 200 euro potrebbero essere vantaggiosi.
“Carbon tax” e mercati delle emissioni: a che punto siamo?
I mercati per le emissioni di CO2 e casi in cui i governi abbiano introdotto vere e proprie “carbon tax” esistono in tutto il mondo. In Europa abbiamo un sistema di scambio pionieristico e particolarmente apprezzato, che coinvolge diversi settori industriali, detto EU ETS.
È il primo e maggiore sistema internazionale per lo scambio di quote di emissione al mondo. Istituito nel 2005, coinvolge tutti i Paesi europei. Riguarda oltre 11.000 impianti ad alto consumo di energia e le compagnie aeree che operano nello spazio economico europeo (SEE) e regola circa il 40% delle emissioni europee di CO2.
Si tratta di un mercato di diritti a emettere CO2 e funziona in accordo con il principio del “cap and trade”: viene fissato un tetto (cap) che stabilisce la quantità massima che può essere emessa dagli impianti inclusi nel sistema, i quali possono acquistare o vendere (trade) quote in base alle loro esigenze tecnologiche e commerciali.
Le imprese che incontrino difficoltà a restare entro la propria quota possono adottare misure per ridurre le proprie emissioni (ad esempio usando tecnologie più efficienti); oppure acquistare le quote necessarie dalle altre imprese che operano sul mercato delle emissioni; o ancora realizzare un mix tra riduzione e acquisto di quote sul mercato.
Non tutti i settori industriali sono tenuti a limitare le proprie emissioni: il sistema comprende quelli più impattanti, acciaierie, impianti di produzione di energia elettrica, raffinerie, chimica.
Se guardiamo alla situazione globale, dobbiamo riconoscere che solo il 20% delle emissioni globali sono in qualche misura regolate e “prezzate”. Inoltre, il prezzo prevalente su questi mercati è di circa da 4 a 7 volte inferiore alle stime dei modelli che abbiamo citato: circa 30 euro rispetto ai 100 e fino a oltre 200 euro.
Ciononostante, nel 2022, si contavano 46 casi di mercati di emissioni o “carbon tax”in tutto il mondo, come si evince anche dalla mappa elaborata dalla Banca Mondiale che si riporta in figura (World Bank, 2021).
Fig 3. Principali iniziative di assegnazione di prezzo alla CO2 o di mercati di emission di CO2 a livello mondiale (Fonte: The World Bank. 2021)
Prima del 2020, molti governi stavano dibattendo circa la possibilità di estendere l’applicazione di una “carbon tax” o l’introduzione di un “prezzo” del carbonio a settori economici precedentemente esclusi dai sistemi di scambio delle emissioni o da politiche fiscali di questo tipo e i mercati avevano iniziato a reagire con una previsione di deciso aumento dei prezzi della CO2
Se la produzione avesse dovuto fronteggiare costi più elevati, essi sarebbero trasferiti ai consumatori e avremmo probabilmente assistito a un ridimensionamento della domanda o a uno spostamento a consumi di beni meno impattanti in termini di emissioni di CO2, anche grazie all’introduzione di innovazioni tecnologiche nei processi produttivi.
In questa fase storica, tuttavia, anche per gli ingenti investimenti fatti in seguito al Covid-19 e allo scoppio della guerra russo-ucraina, l’urgenza politica di lavorare per introdurre questo genere di misure sembra essersi ridimensionata, benché gli effetti dei cambiamenti climatici sull’economia e la società in cui viviamo si facciano sempre più visibili e inesorabilmente più costosi.
Appare ormai chiaro che il problema dell’emergenza climatica sia un’urgenza politica ed economica, perché l’intensificazione dei fenomeni connessi a un aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera potrebbe modificare radicalmente il nostro modello di produzione e di consumo e quindi la crescita economica dei nostri Paesi.
Per affrontare la crisi climatica occorre imparare a misurare molti aspetti interconnessi tra loro: alcuni di tipo fisico, altri di tipo energetico, ma anche impatti sociali, economici e finanziari legati ad esempio al costo delle emissioni di CO2 per le generazioni presenti e future.
Le risposte a una crisi tanto complicata non possono essere immediate né facili. Sono risposte di cui non abbiamo esperienza e quindi non possiamo replicare misure applicate in passato a problemi simili, proprio perché non abbiamo mai avuto problemi simili. Questo rende la politica climatica molto delicata, anche perché dipende da scelte sia pubbliche sia private.
Se riteniamo affidabili le proiezioni alla base dell’Accordo di Parigi del 2015, restano meno di 30 anni per agire, volendo evitare esiti irreversibili.
Molto dipende dalle scelte dei nostri governi, ma anche le imprese mostrano una crescente sensibilità al problema. Prossimamente cercheremo di spiegare perché.
Luca Cetara