La COP28, la Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, si è conclusa a Dubai il 14 dicembre 2023. Dopo due settimane di negoziati, i delegati di 199 Paesi hanno raggiunto un accordo che, sebbene non sia perfetto, rappresenta un passo avanti importante nella lotta ai cambiamenti climatici.
Come ogni anno, si spera che questi negoziati portino a generare impegni universali con riferimento alle emissioni di gas a effetto serra, alle modalità di risposta agli impatti già visibili e futuri dei cambiamenti climatici e agli strumenti operativi da adottare per realizzare una transizione climatica (che significa soprattutto energetica e ormai richiede anche risposte ai danni presenti e futuri) dichiarata desiderabile, ma politicamente ed economicamente ancora molto costosa.
La COP28 ha mostrato una non inedita serie di contraddizioni e ha sollevato prevedibilmente un certo dibattito, per lo più presso gli addetti ai lavori e la stampa internazionale: la Presidenza assegnata a un petroliere emiratino e l’accusa di usare la COP per siglare accordi sul commercio di petrolio e gas a latere della conferenza, le abituali contese contributive tra Paesi meno sviluppati e Paesi donatori sul fondo per la compensazione dei danni climatici (il “Loss & Damage” di cui abbiamo scritto il mese scorso) e sulla mancanza di un finanziamento a supporto della transizione dai combustibili fossili a fonti energetiche rinnovabili, l’uso della materia climatica come moneta di scambio su altre partite politiche, le partecipazioni di personalità eminenti (tra tutte, quella di Papa Francesco) annunciate e non sempre realizzate, hanno popolato le pagine fisiche e virtuali dei mezzi di informazione tra la fine di novembre e la metà di dicembre.
Le decisioni assunte nelle sessioni annuali delle COP (sigla che sta per “Conferenza delle Parti”) sono per lo più caratterizzate da una spiccata dimensione tecnicistica, riferita a settori specifici, contesti geografici o settoriali, politiche e strumenti per realizzare regolamentazioni di dettaglio. A Dubai tuttavia erano in gioco alcune decisioni politiche di portata generale, che vale la pena di riassumere e discutere brevemente, in quanto potranno modificare non solo le prossime scelte dei nostri Governi, ma anche una serie di decisioni aziendali e personali.
Le difficoltà riscontrate durante i negoziati a Dubai non differiscono sostanzialmente da quelle del passato: si ravvisano le note differenze di interessi e priorità tra Paesi sviluppati – più disposti a ridurre le emissioni – e Paesi in via di sviluppo, più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici – e che richiedono tempi più lunghi e significative risorse economiche per avviare una transizione climatica; si conferma anche la dipendenza di alcuni Paesi dai combustibili fossili o per il sistema energetico non ancora pronto a una sostituzione delle fonti fossili di energia, o per una crescita economica fondata su estrazione, raffinazione e commercio di petrolio; infine una diffusa, ingente richiesta di fondi a supporto della transizione climatica da parte dei paesi in via di sviluppo, che non vengono facilmente resi disponibili dalla comunità internazionale.
Dalla conferenza sono emerse essenzialmente la conferma dell’impegno a mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, la volontà di triplicare la capacità di energia rinnovabile nel mondo entro il 2030, di raddoppiare il tasso medio annuo globale di efficienza energetica e di ridurre sostanzialmente le emissioni di gas serra diversi dalla CO2 e in particolare del metano, uno dei gas a effetto serra più impattanti (1 kg di metano produce 2.75 kg di CO2, quindi quasi tre volte più emissioni del carbonio). In sostanza, si tratta di una chiara indicazione di investire in energia da fonti rinnovabili e relative tecnologie a zero e basse emissioni (incluse il nucleare, l’abbattimento e stoccaggio di CO2, la produzione di idrogeno).
Sono risultati significativi, ma non abbastanza: infatti per mantenere l’aumento di temperatura entro gli 1,5 gradi, le emissioni globali di gas serra dovrebbero essere ridotte del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 per raggiungere il “net zero” al 2050, mentre l’attuale impegno si attesta intorno al 30%.
A livello di politiche climatiche, la COP di Dubai ha prodotto una decisione sul Fondo internazionale “Loss and Damage” per compensare le perdite e i danni causati dai cambiamenti climatici di cui abbiamo già detto su queste pagine; una relativa all’obbligo per i Paesi di fornire informazioni più dettagliate sulle loro emissioni e sui progressi compiuti nella riduzione delle stesse; un espresso richiamo alla graduale eliminazione – da farsi quanto prima – dei “sussidi inefficienti ai combustibili fossili che non affrontano la povertà energetica o agevolano la transizione” (che il Ministero dell’Ambiente italiano cataloga da anni); infine, la crescente attenzione al ruolo e al coinvolgimento dei giovani e delle comunità vulnerabili nella lotta ai cambiamenti climatici.
A Dubai, un rilevante e inevitabile collegamento è stato svolto rispetto ai risultati della Conferenza della Convenzione Quadro sulla Biodiversità, come riportati nell’Accordo di Montreal-Kunming (2022): si riconosce il ruolo degli ecosistemi terrestri e marini e della biodiversità che agiscono come pozzi e serbatoi di gas serra.
Si registra qualche progresso anche in tema di adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici: entro il 2030 si richiedono valutazioni dei rischi e degli impatti climatici da usare per redigere piani nazionali di adattamento e relativi strumenti di attuazione. È inoltre richiesto per tutti i Paesi entro il 2028 l’allestimento di sistemi di allerta precoce multi-rischio, osservatori e banche dati climatiche da usare quando si debbano assumere decisioni esposte a rischi climatici – anche in considerazione della volontà di evitare perdite e danni insostenibili. A livello più operativo, sono richiesti, entro il 2030, anche piani di adattamento trasparenti e partecipativi, che mettano a punto misure e processi di pianificazione locali e settoriali.
Ma il vero risultato “storico” della COP28 è stata la decisione di “uscire dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato e equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050 in linea con la scienza”. Nonostante le imperfezioni del caso e i compromessi diplomatici inevitabili, la decisione offre un appiglio importante per la transizione climatica a Governi, Imprese e Società civile, giustificando una pressione sui settori più legati ai combustibili fossili e all’intero sistema finanziario circa le decisioni di investimento in tali settori.
Gli accordi finali della COP28 risentono dell’andamento dei negoziati che abbiamo brevemente presentato, che spiegano la scelta di limitare la riduzione delle emissioni di CO2 equivalente solo del 30% al 2030 e la mancata previsione di un impegno vincolante al finanziamento della transizione nei Paesi in via di sviluppo. Molti analisti hanno visto in questa conferenza segnali importanti per uno stimolo sostanziale alla finanza climatica, che ammonterebbe a 4.300 mila miliardi di dollari l’anno per la mitigazione e 215-387 miliardi di dollari all’anno fino al 2030 per l’adattamento, cifra che complessivamente dovrà poi superare i 5.000 miliardi di dollari l’anno fino al 2050, a vantaggio dei paesi in via di sviluppo. Servirebbero soprattutto “massicci flussi finanziari per enormi investimenti nelle energie rinnovabili” che possono essere facilitati da un’azione concertata delle banche multilaterali per lo sviluppo, che si incontreranno nella primavera del 2024 a Washington.
Si prevede che proprio la finanza climatica costituirà il cuore della prossima COP29 di Baku, in Azerbaijan.
Luca Cetara