Cambiare il nostro modo di consumare e produrre beni e servizi costituisce probabilmente uno degli obiettivi più ambiziosi del processo di transizione ecologica di cui si parla ormai da qualche anno. L’obiettivo 12 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite richiede in sostanza di imparare a produrre di più usando meno risorse naturali e generando meno effetti negativi sull’ambiente e sulla società in cui viviamo. Per ora concentriamoci su uno degli aspetti centrali della questione, che ha catalizzato l’attenzione di istituzioni, imprese e finanza: le emissioni di diossido di carbonio, responsabili del riscaldamento globale e oggetto di un ampio dibattito politico ed economico.
Fig. 1. L’obiettivo 12 promuove l’attuazione del programma decennale dell’ONU per un modello di consumo e di produzione sostenibile. L’obiettivo è adottare un approccio rispettoso dell’ambiente ai prodotti chimici e ai rifiuti. Fonte: UN SDG 2015.
Abbiamo già avuto modo di richiamare in questa rubrica come le emissioni di CO2 sono responsabili di un aumento delle temperature costante, i cui effetti sono spesso drammatici per l’ambiente naturale ma anche per la salute, il benessere e interi settori delle nostre economie.
L’auspicio delle Nazioni Unite e dei Paesi di tutto il mondo è di realizzare una transizione che è innanzitutto climatica ed energetica. E visto che la produzione di energia e le emissioni di gas serra sono intimamente correlate, le due transizioni sono di fatto inscindibili.
Il tempo a disposizione per ridurre le emissioni di CO2 è limitato, se vogliamo cercare di raggiungere gli obiettivi che i Governi di tutto il mondo si sono posti a Parigi nel 2015, e quindi il contenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta a 2 gradi centigradi rispetto al livello preindustriale.
Le imprese e i processi produttivi spesso generano direttamente emissioni mediante le trasformazioni fisiche svolte negli stabilimenti, ma le producono anche indirettamente attraverso l’uso di energia, il trasporto dei beni sui mercati, i comportamenti dei dipendenti e altre azioni connesse all’attività di impresa. Una buona strategia di transizione climatica deve tener conto di tutte le emissioni connesse alle operazioni svolte da un’impresa. Vediamo come e per quali ragioni.
La neutralità climatica dell’impresa
Tra gli strumenti per gestire la transizione energetica dal punto di vista della singola impresa rientrano l’analisi dell’impronta di carbonio, l’interazione con i clienti affinché il loro modo di consumare beni e servizi sia compatibile con una società a basse emissioni e l’analisi dell’intera filiera in cui un’azienda si inserisce che permette di individuare i punti critici, quelli in corrispondenza dei quali sono generate le maggiori emissioni di CO2.
Si tratta di strumenti complementari, tutti utili a scegliere quali azioni intraprendere per generare un cambiamento organizzativo, ma anche nei modi di produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi commerciali.
Un obiettivo classico della transizione per le organizzazioni è la “neutralità climatica”; per spiegarlo usiamo una metafora molto intuitiva: una vasca da bagno.
Fig.2 La vasca da bagno come metafora della concentrazione di CO2 in atmosfera. L’immagine mostra l’analogia tra il riempimento di una vasca da bagno con acqua e la crescente concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre. Fonte: US EPA (2012). Causes of Climate Change: Climate Change: US EPA
Pensiamo a una vasca da bagno che raccolga tutte le emissioni di CO2 prodotte sul Pianeta Terra. Allo stato attuale, possiamo immaginare una vasca relativamente piena. Se togliamo il tappo e lasciamo che il contenuto possa essere scaricato, notiamo che la CO2 in uscita è relativamente poca perché la portata della condotta dello scarico è piuttosto limitata. In effetti, la CO2, una volta prodotta, può essere riversata dalla condotta in pozzi di due tipi: quelli naturali come le foreste, i suoli, la biomassa e quelli artificiali che sono essenzialmente meccanismi tecnici di cattura e immagazzinamento (CCS) che richiedono infrastrutture ad hoc e superfici gestite (come alcune foreste usate a scopi produttivi). Entrambe le tipologie hanno una certa “capacità di assorbimento”. Questi pozzi sono comunque limitati per cui dovremmo cercare di riempire la vasca il meno possibile, riducendo quindi le emissioni di CO2 all’origine. Inoltre dovremmo conservare questi pozzi in buono stato e assicurarci che siano efficaci nel loro lavoro di assorbimento e stoccaggio della CO2, onde evitare un aumento della concentrazione in atmosfera (o – per continuare con la nostra metafora – nella vasca).
Veniamo alla neutralità climatica: si ottiene quando tutte le nuove emissioni rilasciate in atmosfera (o nella vasca) sono assorbite dai pozzi naturali o artificiali, per cui la quantità di CO2 in atmosfera non cambia (o diminuisce). Questa stabilità può rappresentare un tipo di neutralità climatica.
Lo stesso concetto può essere applicato a un livello organizzativo: un’organizzazione è climaticamente neutrale se non aggiunge nuove emissioni a quelle già presenti in atmosfera. Pertanto, o le riduce o le assorbe attraverso pozzi non ancora contabilizzati. Per esempio mediante interventi di forestazione abbinati a programmi di efficienza energetica o all’uso di energia da fonti rinnovabili.
Dal punto di vista di un’impresa possiamo chiederci: cosa dovremmo fare per allineare le nostre emissioni agli impegni assunti a Parigi nel 2015 relativamente al contenimento dell’aumento della temperatura globale entro una soglia di due gradi rispetto ai livelli preindustriali?
A livello organizzativo una impresa può fare essenzialmente tre cose per contribuire al conseguimento di un obiettivo di riduzione dell’aumento della temperatura globale:
- chiudere il proprio rubinetto di emissioni, riducendo drasticamente le proprie emissioni e quindi la propria impronta di carbonio,
- aiutare altri attori e altre imprese a chiudere i propri rubinetti mediante la messa a punto di prodotti e servizi venduti sul mercato a basse/nulle emissioni di CO2 o mediante il finanziamento di progetti a basse emissioni di CO2,
- aumentare la capacità di assorbimento del sistema aggiungendo nuovi pozzi di carbonio, o aumentando la capacità dei pozzi esistenti ad esempio con interventi di gestione di pozzi naturali (le foreste) o di aumento della superficie assorbente (per esempio con interventi di depavimentazione o di forestazione urbana).
Misurare l’impronta di carbonio.
L’impronta di carbonio o “carbon footprint” è il bilancio complessivo del carbonio emesso da un’organizzazione lungo tutto il processo di produzione e commercializzazione e fino alla fine del ciclo di vita dei suoi prodotti. Ogni attività, dalle emissioni dirette a quelle necessarie per la lavorazione delle materie prime usate nel processo produttivo contribuiscono a determinare la dimensione dell’impronta di carbonio di un’impresa.
Prendiamo un’azienda che produce prodotti per la cura del viso e del corpo. Poniamo che faccia uso di materie prime naturali e che intenda ridurre le emissioni in tutto il ciclo di vita dei propri prodotti di bellezza. Ciò vale sia con riferimento ai processi produttivi interni all’azienda sia alla filiera in cui essa si inserisce. Questo è il contributo che l’impresa fornisce in termini di chiusura del rubinetto di emissioni di CO2.
Inoltre, la nostra azienda potrà finanziare un impianto fotovoltaico in un Paese che le fornisce una quantità considerevole di materie prime. Questo è il contributo alla riduzione di emissioni di terze parti.
Poi, potrebbe aiutare i fornitori di materie prime naturali a modificare le tecniche agricole usate per la produzione di queste materie vegetali in modo che siano meno impattanti e soprattutto che aumentino la loro capacità di stoccaggio delle emissioni di CO2 nei suoli coltivati. Questo è il contributo all’aumento della capacità dei pozzi.
Sempre con questo obiettivo, l’azienda potrebbe finanziare progetti di assorbimento del carbonio in aree del tutto estranee al proprio business. In questo caso, si tratterebbe di una forma di compensazione.
Se un’impresa ricorresse ai soli crediti di carbonio derivanti da progetti del tutto estranei al proprio “core-business” (non tagliando di fatto le emissioni dirette di CO2), essa svolgerebbe solo una parte delle azioni ritenute necessarie per conseguire la neutralità climatica, visto che ignorerebbe del tutto il problema del rubinetto aperto.
Imprese diverse dovrebbero cercare una propria strada alla decarbonizzazione: le differenze possono dipendere ad esempio dal settore di riferimento, dal posizionamento strategico dei propri prodotti o servizi, dai mercati che si intende servire, dai gusti dei consumatori che si servono.
Non esistono attività di impresa che siano realmente svolte senza alcun consumo energetico, pertanto tutte le attività di impresa contribuiscono di più o di meno al totale delle emissioni dell’organizzazione. Nulla dovrebbe essere ignorato.
In sostanza, l’impronta di carbonio si usa per individuare il livello di dipendenza di ciascuna attività svolta in un processo aziendale dalla produzione di emissioni di CO2. Sappiamo che ci sono diversi gas serra diversi dalla CO2 (come il metano), ma l’unità di misura usata sono le tonnellate equivalenti di CO2, in cui è possibile convertire ogni tipo di emissione climalterante. Per esempio una tonnellata di metano equivale a 30 tonnellate di CO2e (dove la lettera “e” sta per equivalenti).
Le emissioni si calcolano su base annuale e il calcolo comprende tre livelli, noti come “scope”.
- Scope 1 (direct) si riferisce a emissioni direttamente collegate all’attività di impresa, o “emissioni dirette”.
- Scope 2 (indirect) si riferisce alle emissioni indirettamente collegate all’attività di impresa, o “indirette”: sono quelle connesse all’uso di energia la cui generazione produce altrove delle emissioni in ogni caso necessarie a svolgere il processo di produzione dell’impresa.
- Scope 3 (indirect) si riferisce a un ventaglio di emissioni diverse: a monte, e a valle. Le prime si riferiscono alle emissioni connesse agli input della produzione d’impresa: personale che viaggia, edifici e macchinari che hanno comportato una determinata quantità di emissioni quando sono stati costruiti, acquisti di materie prime e semilavorati da altre imprese. Le altre sono quelle relative alla vita dei prodotti una volta che siano fuori dagli stabilimenti: quindi le emissioni da trasporto, da gestione dei rifiuti, dall’uso dei prodotti (per esempio un’automobile produce molto CO2 dopo essere stata venduta).
Fig. 3: Una rappresentazione grafica del Protocollo ISO – GHG per un’impresa e le emissioni di scopo 1, 2 e 3 connesse allo svolgimento della sua attività. Fonte: Compare Your Footprint.
L’impronta di carbonio, articolata sui tre scope, comprende emissioni che risiedono chiaramente al di fuori della responsabilità diretta di un’impresa che offra un prodotto o un servizio. Infatti il concetto di impronta di carbonio si ispira a un principio di dipendenza e non a uno di responsabilità: ogni prodotto o servizio è riconducibile a un produttore e quindi le emissioni legate a tutto il ciclo di vita del prodotto dipendono dal processo di produzione e di commercializzazione. Questo modo di misurare le emissioni permette di individuare una serie di processi fisici che generano emissioni e fanno parte del sistema di funzionamento di un’impresa in senso lato.
In termini di calcolo si associa a ciascuna quantità fisica misurata un fattore di conversione che si chiama “fattore di emissione”. Prendiamo l’esempio di una impresa che usi 10.000 litri di carburante diesel ogni anno nel proprio processo produttivo. Il fattore di emissione associato a un litro di carburante diesel è 3kg di CO2e. Pertanto le emissioni relative al carburante saranno di 30 tonnellate di CO2e/anno.
Il metodo di calcolo è uniforme e rientra tra gli standard normati dalla International Standard Organization – ISO attraverso un Protocollo dedicato proprio alle emissioni di gas serra (ISO GHG Protocol).
Emissioni e tagli per le imprese
Le grandi imprese generano milioni di tonnellate di CO2e ogni anno. Inviare un messaggio dallo smartphone produce un centesimo di grammo di CO2. Un video on-line di 10 minuti circa 3 grammi di CO2. Un cittadino europeo più o meno emette 11 tonnellate l’anno di CO2e. Il mondo ne emette circa 50 miliardi in totale.
Secondo alcune stime, per allineare i nostri sistemi di produzione e consumo con gli obiettivi di Parigi, dovremo tagliare le emissioni globali dell’80%. Questo significa ridurle circa del 5% l’anno entro il 2050. Ma non tutti i settori industriali sono uguali e non tutti sono in grado di ridurre allo stesso ritmo.
In sostanza si parte dal budget complessivo di CO2 concesso nel caso in cui si ritenga di contenere l’aumento di temperatura entro i 2 gradi. Questo bilancio viene poi diviso tra i diversi Paesi e i diversi settori industriali. Ogni settore ha un obiettivo di riduzione che dovrebbe essere distribuito tra le imprese afferenti a quel settore in quel Paese.
Sono oltre 1000 le imprese che in tutto il mondo hanno già dichiarato espressamente i propri obiettivi sulla base di un calcolo fondato sulle premesse che abbiamo descritto sopra.
Per farsi un’idea di quante emissioni un’impresa riesca a evitare, occorre disporre di un livello di riferimento standardizzato rispetto a cui sia possibile dire che il prodotto dell’azienda in esame sia più o meno impattante, cioè produca più o meno emissioni. Si usano standard di prodotto o di settore che individuano le emissioni associate in media a un certo prodotto o tipo di lavorazione industriale o attività economica. In questo caso sarà possibile quantificare le emissioni evitate rispetto a un riferimento unico (in gergo, la “baseline”). Si tratta di valutare la differenza positiva o negativa tra la “baseline” e il prodotto o il processo produttivo dell’impresa che si desidera analizzare. Anche in questo caso esistono alcuni standard volontari tra cui quelli sviluppati da ISO.
Immaginiamo di introdurre una nuova tecnologia in grado di produrre lo stesso oggetto con meno emissioni. Nella figura 4 possiamo vedere rappresentati in grigio i risultati in termini di riduzione delle emissioni di CO2 derivanti dalla realizzazione di questo progetto tecnologico. In questo caso le emissioni sono più basse rispetto alla “baseline” di riferimento, solitamente corrispondente a una condizione in cui non si faccia pressoché nulla per evitare le emissioni di CO2.
Fig. 4. Quantificazione della riduzione di CO2 conseguita in seguito all’attuazione di un progetto di innovazione tecnologica rispetto a uno scenario di riferimento (baseline). Fonte: ghginstitute.
Il Sequestro di carbonio
Torniamo ora ai “pozzi di carbonio”: per misurare il valore delle emissioni di CO2 sequestrate mediante interventi messi in opera o finanziati da un’impresa occorre considerare le azioni riconducibili all’impresa che si intende analizzare. Per esempio, la scelta di piantare un certo numero di alberi su un terreno di proprietà o di cofinanziare un progetto di assorbimento tecnico o gestionale curato da un ente terzo potranno dar luogo a un calcolo di questo tipo. Occorre naturalmente che la capacità di assorbimento di un progetto sia misurata in modo standardizzato e che la quota di tale capacità riconducibile all’impresa di riferimento le sia assegnata correttamente. Anche in questo caso si fanno i conti su base annuale e si usa una speciale unità di misura nota come “credito di carbonio”. Sono le stesse società e organizzazioni che hanno sviluppato standard per gli altri due “scope” a fornire metodi di calcolo per i crediti di CO2.
Un metodo standardizzato per il calcolo e la certificazione dei crediti di carbonio generati da un particolare tipo di pozzo o di intervento tecnico costituisce una condizione essenziale per lo sviluppo di un mercato di crediti, in cui le imprese che non riuscissero a ridurre le proprie emissioni dirette potrebbero ricorrere (almeno in parte) all’acquisto di crediti di carbonio a compensazione delle proprie emissioni, al fine di raggiungere un obiettivo di decarbonizzazione che potrebbe essere di natura volontaria, ma anche stabilito per legge.
Il percorso verso una sistematica decarbonizzazione dell’economia è complesso, ma non implausibile. Non esistono ancora degli obiettivi standardizzati in linea con l’Accordo di Parigi che possano essere adottati direttamente dalle imprese intenzionate a ridurre le proprie emissioni, perché non esistono strumenti o metodi accettati per determinarli. A volte si seguono indicazioni fornite dalle strategie nazionali per la transizione climatica, ma specialmente con riferimento alle emissioni di scopo 2 e 3 siamo ancora in una condizione di relativa incertezza e difficoltà di confronto tra organizzazioni diverse. Tuttavia specialmente in Europa la strada per la decarbonizzazione dell’economia è chiaramente segnata, con significativi aiuti per le imprese erogati dall’UE e dai Paesi membri e una domanda crescente di professionalità green, inimmaginabile fino a pochi anni fa.
Luca Cetara
Professore, Ricercatore, Eurac Research
e docente di Economia Ambientale
e Sostenibilità presso European School of Economics