Abbiamo assistito a una crescita impressionante del commercio internazionale negli ultimi 40 anni; d’altra parte la dipendenza delle nostre economie da beni e servizi provenienti da tutti gli angoli del mondo è ormai evidente. Si tratta di una dipendenza che ha generato vantaggi considerevoli di costo e permesso ai consumatori di accedere a prodotti a prezzi generalmente più bassi.
Il commercio internazionale di beni e servizi nel 2021 generava circa il 57% del PIL globale. Le imprese accedono a nuovi mercati, aumentano la produzione, assumono personale e contribuiscono alla crescita economica e al benessere di Paesi in fase di transizione o in via di sviluppo, spesso riducendo l’incidenza di fenomeni di povertà e deprivazione.
Non a caso il valore finanziario del commercio internazionale è aumentato di circa 7 volte dagli anni 1980 al 2021 e si attesta intorno ai 32.000 miliardi di dollari per il 2023, secondo le Nazioni Unite (UNCTAD, 2022).
La crescita del commercio internazionale si relaziona in particolare a due fenomeni economici fondamentali: la crescita economica e le “catene del valore globali” (Global Value Chains).
Un maggior volume di scambi internazionali è naturalmente collegato a una maggiore crescita economica. Questa relazione vale ovunque, ma i dati indicano che vale soprattutto nei Paesi relativamente svantaggiati, che hanno sperimentato una crescita economica più marcata spinta dalle esportazioni.
Ragguardevole è l’espansione dei commerci provenienti dai cosiddetti Paesi BRIC: Brasile, Russia, India e Cina, dove una normativa più favorevole ai mercati aperti ha generato tassi di crescita economica che hanno generalmente portato a una riduzione del livello di povertà nei rispettivi territori.
Ad esempio il tasso di povertà estrema a livello globale calcolato su una soglia di 1.90 dollari/giorno per il 2018 era dell’8,6% rispetto a un valore del 9,1 nel 2017, che significa una riduzione di circa 28 milioni di poveri. Un valore che conferma un trend di lungo periodo anche se il tasso di riduzione è diminuito negli ultimi anni: tra 2012 e 2015 era del 2.8% e solo del 1.5 tra 2015 e 2018 (Figura 1). Più di recente il trend si è invertito con la pandemia di Covid-19, rallentando una riduzione che sembrava ormai consolidata.
Figura 1. Andamento della povertà estrema dal 1990 al 2018 calcolata rispetto alla soglia di 1.90$ al giorno (Fonte: Banca Mondiale)
Le Catene Globali del Valore
Una catena del valore mostra come il valore finale di un prodotto viene generato e dove: in presenza di un sistema di scambi internazionali efficiente, ogni stadio di produzione di un prodotto può svolgersi in un luogo diverso. A ciascuno stadio si aggiunge una quota del valore complessivo del prodotto finale che è quindi distribuito tra tutti i siti in cui le frazioni di questo valore vengono generate. Questo permette la specializzazione dei Paesi, dei distretti produttivi e delle singole imprese nello svolgimento di una particolare fase in un processo produttivo relativamente complesso.
Una catena globale del valore (GVC) è abitualmente strutturata nelle fasi di reperimento delle risorse naturali usate come fattori di produzione; ricerca e design del prodotto o del servizio che si offre; produzione industriale; distribuzione e marketing; vendite dei prodotti o servizi finali (Figura 2).
Figura 2. Le fasi di una catena globale del valore.
Partecipare a una GVC permette a uno stato di specializzarsi in una nicchia di mercato da cui possono derivare redditi di rilievo per il Paese, senza dover per questo sviluppare l’intera industria a cui il contributo offerto dal Paese si rivolge.
Comporta tuttavia anche dei rischi, specialmente per Paesi in via di sviluppo, che possono essere molto vulnerabili a fronte di variazioni nei prezzi dei beni. Dipendendo interamente dal livello di vendita di un bene, essi risentono pesantemente delle variazioni di domanda di questi beni o anche delle variazioni di domanda dei fattori produttivi usati per produrli. Ad esempio se un aumento dei costi energetici determina una flessione della domanda di motori energivori, un Paese che produceva una parte di tali motori ne risentirà direttamente e tanto più quanto più elevata sia la quota del proprio PIL dipendente da quella specifica produzione. Questi shock sono però in parte prevedibili e possono essere mitigati attraverso alcuni strumenti di governo del commercio adottati a livello nazionale o sovranazionale.
La regolamentazione del commercio internazionale e la questione ambientale
Esistono due componenti del regime attuale del commercio internazionale.
La prima è un sistema di scambi di tipo multilaterale che vede al proprio centro il WTO e comprende una serie di accordi multilaterali e un meccanismo di composizione delle controversie internazionali.
La seconda è una vera e propria rete di accordi bilaterali e regionali che sono indipendenti dal WTO e abitualmente prevedono impegni più restrittivi di quelli alla base del WTO.
Il regime nel suo complesso promuove i principi della progressiva liberalizzazione del commercio e della non discriminazione tra partner commerciali.
Per la prima volta nel 1995 tra i fini del WTO rientra l’uso ottimale delle risorse del pianeta in linea con un obiettivo di sviluppo sostenibile finalizzato sia a proteggere sia a preservare.
Commercio internazionale, ricchezza e disuguaglianze: primi problemi
In linea generale possiamo essere soddisfatti dei benefici del commercio internazionale, ma dobbiamo riconoscere che la distribuzione della ricchezza e del reddito generati da questo trend non sono distribuiti equamente tra la popolazione mondiale.
Se consideriamo la distribuzione della ricchezza globale dobbiamo ricordare che le élites detengono la maggioranza della ricchezza, al punto che le prime 100 persone con patrimoni più elevati detengono la metà della ricchezza complessiva.
Secondo il World Inequality Report 2022, se consideriamo la distribuzione dei redditi generati, il 52% del reddito viene percepito dal 10% della popolazione più ricca, mentre il 50% più povero si spartisce l’8.5% del reddito prodotto a livello globale (WID 2022).
Definire la relazione tra commercio e ambiente
In estrema sintesi, il commercio impatta sull’ambiente e le normative ambientali hanno effetti sulle modalità in cui il commercio può svolgersi.
Se iniziamo ad analizzare gli impatti del commercio sull’ambiente possiamo individuare degli impatti diretti legati al fatto che esportare significa produrre e la produzione genera pressione sulle risorse ambientali, che sono scarse e fragili per definizione.
Possiamo usare il concetto di “impronta ecologica” e quello di “impronta sociale” per parlare degli effetti ambientali di una scelta economica e precisamente della produzione di beni e servizi finalizzata agli scambi internazionali.
Gli impatti ambientali e sociali del commercio internazionale dipendono da una serie di variabili, alcune delle quali si possono leggere di seguito:
- l’oggetto del commercio, cioè il tipo di beni o servizi che viene scambiato;
- le modalità del commercio, cioè i processi e i termini degli accordi commerciali che regolano gli scambi;
- le modalità di produzione dei beni e servizi che vengono scambiati;
- le modalità di distribuzione del benessere, della ricchezza o del reddito creato attraverso l’accesso al commercio internazionale;
- la gestione delle emissioni e dei rifiuti relativi alla produzione e agli scambi necessari per il commercio internazionale.
Questi aspetti sono in buona parte legati alla legislazione e alle politiche che definiscono le relazioni tra priorità commerciali e priorità ecologiche in uno o più Paesi coinvolti in uno scambio commerciale internazionale.
Regolamentazione ambientale e commercio internazionale
La seconda parte del problema riguarda il modo in cui la regolamentazione ambientale influenza il commercio internazionale. Molte delle politiche di regolamentazione ambientale abitualmente adottate dai governi dei Paesi avanzati generano effetti diretti sul commercio internazionale. Si riassumono le principali nella lista che segue.
- norme sull’import: impongono regole o standard ai beni o servizi che entrano in un Paese o in una regione del mondo;
- tassazioni o dazi o altre misure: rendono più costose determinate produzioni ritenute maggiormente dannose o rischiose per le risorse naturali o la qualità dell’ecosistema;
- incentivi e sussidi a favore di determinate tipologie di prodotti o servizi;
- disincentivi, limiti o tasse applicate a prodotti e servizi con impatti ambientali avversi e comunque non desiderabili.
A ben vedere questi interventi hanno effetti anche sull’occupazione, sull’innovazione e sullo sviluppo dei Paesi a cui si riferiscono – una condizione che chiama in causa anche molti altri tra gli SDG.
Dal 1994 esiste una consapevolezza, certificata dal WTO stesso, della relazione tra commercio, ambiente e sviluppo sostenibile nel testo del più importante accordo internazionale per la regolamentazione dei flussi commerciali.
Era chiaro che il commercio internazionale non fosse esente dal contribuire a impatti ambientali significativi connessi all’uso e alla pressione su risorse ecologiche limitate e a una popolazione mondiale in crescita che continuerà a esprimere e a espandere i propri bisogni, come il degrado dello strato di ozono, la perdita di biodiversità connessa all’espansione della società umana, l’inquinamento degli oceani, il riscaldamento globale, l’inquinamento atmosferico e le emissioni – compresi i rifiuti.
Se fino agli anni 1990, la maggior parte degli accordi ambientali internazionali si concentravano sulla conservazione della natura o sulla gestione di risorse biologiche, in seguito hanno integrato aspetti di sviluppo socioeconomico, strumenti ambientali di azione, fino a richiedere l’attuazione di norme e regolamenti esistenti. Si tratta di un processo di lungo periodo avviato a Stoccolma (1972) e a Rio de Janeiro (1992) e giunto fino all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (2015), ma tuttora in corso.
Politica ambientale internazionale e green economy
La politica ambientale oggi si ispira a tre principi: l’aumento della efficienza nell’uso delle risorse naturali scarse e limitate da parte di tutte le attività umane e in particolare di quelle economiche; il disaccoppiamento tra crescita economica e degrado ambientale che può essere interpretato in diversi modi, incluso l’andamento delle emissioni di CO2; e il concetto di green economy, intesa come uno strumento per la realizzazione della sviluppo sostenibile in cui l’equazione “ambiente – sviluppo” viene risolta introducendo nuove soluzioni compatibili con le esigenze di entrambi i concetti.
Per “green economy inclusiva” intendiamo una economia a basse emissioni di CO2, efficiente nell’uso delle risorse naturali e inclusiva con riferimento al consumo e ai risultati, ispirata a principi di circolarità, condivisione, collaborazione, solidarietà, resilienza, opportunità e interdipendenza.
Per aumentare le opzioni e le scelte per tutti essa utilizza gli strumenti fiscali, legislativi, di sicurezza sociale e si avvale di una base istituzionale solida in grado di salvaguardare standard sociali e non consentire che siano superati i limiti ecologici planetari.
Commercio internazionale per la green economy?
Si sta cercando di interpretare il commercio internazionale non più come una minaccia alla transizione a una economia verde, ma come un’opportunità di estendere i principi alla base di un sistema economico compiutamente sostenibile lungo le catene globali del valore che caratterizzano il commercio internazionale, in linea con la Dichiarazione di Rio+20 che lo qualifica come motore e stimolo allo sviluppo sostenibile e con l’SDG 17 dedicato ai partenariati per lo sviluppo sostenibile che parla di commercio internazionale come motore per la crescita inclusiva e per la riduzione della povertà.
Le intenzioni non sono sempre confortate dai numeri, per esempio la volontà di alleviare il livello di indebitamento dei Paesi in via di Sviluppo e meno sviluppati (LDCs) attraverso un aumento delle esportazioni si sono scontrate con i sensibili aumenti del debito connessi alla crisi pandemica che ha sia aumentato la dipendenza di questi Paesi dagli altri sia ridotto la loro capacità di generare rendimenti con le esportazioni.
I Paesi più poveri dell’Africa subsahariana hanno visto un aumento del rapporto debito / GNI (reddito nazionale lordo) superiore al 20% in dieci anni.
Ci sono anche esempi incoraggianti come l’Ecuador nel centro America. Questo Paese produce un genere di cacao fermentato che è sostanzialmente unico nel suo genere, ma per il livello di istruzione e di competenze degli agricoltori che sono davvero molto bassi, non riesce ad accedere a mercati in grado di riconoscere e certificare la qualità di questi prodotti. Pertanto non riesce a spuntare un prezzo premium sui mercati internazionali e quindi la produttività del lavoro rimane modesta. Nell’ambito della transizione ecologica nazionale è stata realizzata una rete di produttori che ha permesso di vendere il cacao di qualità a imprese multinazionali che lo hanno pagato di più, stabilizzando il livello dei prezzi e quindi fornendo redditi più sicuri agli operatori del settore.
Oltre ad aprire mercati in grado di generare redditi più elevati e quindi fornire un incentivo ad allinearsi agli standard adottati nei Paesi avanzati e occidentali, il commercio internazionale permette anche di esportare conoscenze, tecnologie e innovazione in tempi e a costi competitivi.
Molte di queste tecnologie sono in grado di migliorare sensibilmente le performance ambientali e sociali nei Paesi beneficiari e possono esservi introdotte a costi molto ragionevoli. Inoltre sono spesso finanziate dagli interventi di assistenza allo sviluppo dei governi dei Paesi avanzati, quindi hanno costi ancora più bassi.
In generale l’aumento degli investimenti diretti esteri nei Paesi in via di sviluppo si traduce quasi automaticamente in miglioramenti tecnologici e produttivi compatibili con la tutela delle risorse naturali e la minimizzazione degli impatti ambientali, specialmente in termini “relativi” cioè se confrontati con i livelli tecnologici prevalenti nei Paesi beneficiari, che sono bassi perché la base tecnologica presente è spesso obsoleta e inefficiente.
Luca CETARA
Professore, Ricercatore, Eurac Research
e docente di Economia Ambientale
e Sostenibilità presso European School of Economics