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18 Febbraio 2025
Economia Primo Piano

I cambiamenti climatici: tra fisica, energia ed economia

Cosa sono i cambiamenti climatici? Una fonte particolarmente autorevole li qualifica sia come cambiamenti che oltrepassano la variazione naturale delle temperature terrestri e oceaniche sia come tendenze anomale nella durata delle stagioni, nell’andamento delle precipitazioni e in numerosi altri sistemi. Così li spiega il sito web della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, o UNFCCC.

Si tratta di cambiamenti anormali (abnormal) che derivano indubitabilmente (there is no question) dal riscaldamento globale dovuto all’aumentato effetto serra, a sua volta causato da un aumento della concentrazione di gas a effetto serra nell’atmosfera terrestre che dipendono dalle attività umane.

A conforto di una posizione unanime della comunità scientifica internazionale, che indica un aumento significativo a partire dalla Rivoluzione industriale, in ragione del consumo di combustibili fossili e dei cambiamenti nell’uso del suolo, si possono verificare i dati riportati a frequenza giornaliera dall’osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, che a fine gennaio 2023 registrava l’andamento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera terrestre riprodotto qui sotto e una concentrazione atmosferica di circa 420 parti per milione di CO2 tra il 16 e il 20 febbraio 2023.

Fig. 1 Andamento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre misurata all’osservatorio NOAA di Mauna Loa (USA) (2023)

È noto da poco meno di due secoli che la temperatura media terrestre sia legata alla concentrazione di determinati gas (noti come a effetto serra, o gas serra) nell’atmosfera terrestre, in modo che piccole variazioni di concentrazione possono generare significativi aumenti di temperatura che hanno impatti importanti sui sistemi meteorologico e climatico che possono causare effetti dannosi sulla vita umana, sulla natura e sull’economia in cui viviamo.

Ne siamo tutti abbastanza coscienti: la consapevolezza di questi fatti appare non solo scientificamente assodata, ma anche sempre più diffusa presso l’opinione pubblica.

Ben tre dei principali rischi richiamati dal World Economic Forum nel suo Global Risk Report per il 2022 sono legati ai cambiamenti climatici: il fallimento della politica climatica, gli eventi catastrofici legati a condizioni climatiche estreme e la perdita di biodiversità. Si tratta naturalmente di tre rischi interconnessi: il fallimento della politica climatica tenderà a favorire l’aumento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera, quindi l’aumento delle temperature responsabile degli eventi catastrofici estremi e della perdita di biodiversità. Un meccanismo in grado di innescare un “race to the bottom” o quanto meno un circolo vizioso.

Di fronte a un nesso di causalità acclarato e a una coscienza tutto sommato diffusa, possiamo affermare che sostanzialmente nessuno nella nostra società possa sentirsi ragionevolmente escluso da quella che l’Agenda 2030 dell’ONU identifica come “azione climatica” e introduce nel suo obiettivo 13, vale a dire “la considerazione sistematica del cambiamento climatico come questione primaria all’interno dell’agenda politica, nelle strategie e nei programmi dei governi nazionali e regionali, delle imprese e della società civile, migliorando la risposta ai problemi generati, come i disastri naturali, e incentivando l’educazione e la sensibilizzazione di tutta la popolazione”.

Nessuno ne è escluso: in particolare non le imprese e più in generale il settore privato, responsabili storici della cosiddetta crisi ambientale prima e climatica poi, ma anche di un aumento di benessere senza precedenti a livello globale.

Il discorso è piuttosto complesso, ma cerchiamo di procedere con ordine e partire proprio dalle emissioni di gas a effetto serra.

Confermiamo subito che cambiamenti climatici ed energia sono fortemente connessi. Oggi l’energia è parte integrante delle nostre vite: per l’80% l’energia che consumiamo deriva da combustibili fossili ed è rimasta per decenni decisamente poco costosa.


Fig. 2 Consumo primario di energia per tipologia di fonte: l’80% dell’energia prodotta deriva da fonti fossili (Our World in Data, 2023)

Facciamo un esempio: secondo uno studio, con un litro di petrolio si produce circa 20 volte l’energia che una persona potrebbe produrre pedalando per un intero giorno di lavoro. In sostanza, se dovessimo pagare le persone per pedalare, la quantità di energia prodotta pedalando ci costerebbe circa 1000 volte di più di quella che otterremmo bruciando un petrolio (e questo nell’ipotesi di corrispondere ai lavoratori il salario minimo francese).

Questi ordini di grandezza spiegano piuttosto bene il successo dei combustibili fossili e le quantità che le nostre società ne consumano quotidianamente: semplificando, possiamo dire che un cittadino consuma quotidianamente l’equivalente di 10 litri di petrolio al giorno, che corrispondono al lavoro di 200 persone.

Continuiamo con una doverosa lode all’energia: il successo delle economie occidentali dipende in larga misura dalla disponibilità di energia prodotta da combustibili fossili a prezzi assolutamente competitivi. Le rivoluzioni industriali attraverso cui le nostre società sono passate devono molto ai vantaggi di costo legati alla disponibilità di combustibili fossili, che hanno anche il pregio di essere “mobili” (cioè facili da trasportare) e quindi relativamente semplici da scambiare a livello internazionale.

In sostanza, se venisse meno l’accesso a combustibili efficienti e a buon mercato, il nostro modello di crescita economica (o meglio uno dei suoi motori fondamentali) sarebbe messo a dura prova. Ne abbiamo avuto prova sin dai primi mesi della crisi ucraina. Se guardiamo all’aumento dei consumi energetici complessivi a livello globale notiamo che siano aumentati di circa 8 volte nell’arco di 80 anni e che tale aumento sia allineato alla crescita del benessere economico. Per questo, in mancanza di alternative efficienti, il nostro modello economico rischia di non reggere.

Eppure il consumo di energia delle nostre economie non è una panacea. Un adagio molto in voga tra gli economisti è che “a questo mondo non esistono pasti gratis” – affermazione piuttosto realista e deprimente che in questo caso si declina nei costi ambientali e sociali di un uso massiccio di combustibili fossili. Infatti la suddetta CO2 è il risultato della combustione fossile che può considerarsi responsabile dell’eccessivo accumulo di gas in atmosfera responsabile degli aumenti delle temperature e dei relativi impatti diretti e indiretti, fisici e sociali. Tra i quali ricordiamo alluvioni, siccità, aumento del livello del mare, tempeste e calamità naturali, frane e cambiamenti nello stato vegetativo delle coltivazioni, innesco di nuove malattie e in termini sociali migrazioni, crisi economiche settoriali, interruzione della produzione di alcuni beni o servizi. Impatti tutti, almeno teoricamente (ma non senza difficoltà), quantificabili in termini di danni monetari.

Fin qui abbiamo cercato di evidenziare il problema: il nostro modello di vita richiede quantità ingenti di energia, l’energia da fonti fossili è stata storicamente una modalità molto efficiente per far funzionare le nostre economie e migliorare le nostre vite, tuttavia questo modus vivendi ha creato una forte dipendenza da un certo tipo di combustibili (per altro localizzati principalmente in alcune regioni del mondo) e da alcuni anni i nostri pasti sono (metaforicamente ma non troppo) sempre più cari.

Ma come si risponde al problema? Essenzialmente possiamo riconoscere due approcci complementari da seguire, noti agli esperti come adattamento e mitigazione. Il primo si riferisce ad accorgimenti utili a convivere con alcune delle conseguenze fisiche, sociali ed economiche degli impatti dei cambiamenti climatici: coltivare specie più resistenti alla scarsità idrica, realizzare sistemi per la protezione di persone e cose dalle alluvioni, evitare investimenti in aree a rischio. La seconda si riferisce al contenimento delle emissioni che nel tempo generano il fenomeno del riscaldamento globale. Quest’ultima richiede che siano apportate modifiche significative al nostro sistema produttivo e in particolare alla produzione e distribuzione dell’energia come la conosciamo oggi.

Da questo punto di vista sono stati proposti, nel tempo, diversi obiettivi a cui tendere. Possiamo fare riferimento a quello più rilevante a livello politico in quanto fatto proprio dall’Accordo di Parigi del 2015: il contenimento della temperatura entro un aumento massimo di 2 gradi centigradi rispetto al livello preindustriale. Per conseguire un risultato di questo tipo, occorre non emettere una quantità di gas serra tale che il nostro pianeta non sia in grado di assorbirla attraverso il proprio patrimonio di biomassa, cioè di vegetazione.

Tuttavia, la temperatura media è già aumentata di oltre 1 grado rispetto al livello preindustriale, quindi ci rimane (volendo tener fede agli impegni di Parigi) un margine di circa 1 grado. Le stime indicano che a fine 2022 avevamo ancora circa 500 miliardi di tonnellate di CO2 di possibili emissioni residue per allinearci con gli impegni di Parigi. In media emettiamo circa 40 miliardi di tonnellate l’anno, per cui il credito rischierebbe di terminare nel 2040. Conti alla mano, dovremmo ridurre le emissioni del 3 o 4% l’anno per conseguire nel 2070 l’obiettivo di fissato a Parigi.

In linea generale, sono state individuate diverse modalità di azione per conseguire questo obiettivo collettivo. È importante precisare che si tratta di un obiettivo collettivo e globale, perché le località in cui avvengano le emissioni non sono rilevanti rispetto ai livelli di concentrazione di CO2 in atmosfera e perché nessun risultato convincente è raggiungibile senza sforzi di riduzione diffusi. Possiamo dire che l’obiettivo dovrebbe essere condiviso dal maggior numero possibile di Paesi, indipendentemente dall’intensità con cui emettono CO2 attualmente. Se lasciassimo emettere molta CO2 ai Paesi che aspirano a una crescita economica rilevante nei prossimi anni, lo sforzo per gli altri sarebbe ancora più impegnativo e quindi difficilmente realizzabile.


Fig.3 Emissioni di CO2 per area geografica (valori assoluti) dal 1750 al 2021 (Our World in Data, 2022)

A riguardo si considerino due osservazioni: la prima è che un ritardo nella riduzione ci obbliga a porci obiettivi sempre più stringenti e ardui da conseguire infatti la CO2 si accumula in atmosfera e man mano che emettiamo la capacità si riduce; la seconda è che una buona parte della CO2 che emettiamo può essere assorbita dai cosiddetti “pozzi di carbonio naturali” (natural carbon sink) di cui disponiamo sul pianeta, cioè dalla biomassa. Per questo ha senso preservare le foreste e dove possibile anche aumentare queste superfici con interventi di forestazione e piantumazione di alberi.

Per mettere in relazione tra loro due termini piuttosto abusati, osserviamo che la transizione climatica costituisce un obiettivo più ampio, flessibile e complesso della transizione energetica tout court. Ma entrambi i concetti sono necessari per muoverci verso un futuro meno climaticamente turbolento: un fine a cui teniamo molto, al punto da dichiarare che ne riparleremo.

Luca Cetara
Professore, Ricercatore, Eurac Research
e docente di Economia Ambientale e Sostenibilità
presso European School of Economics

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