Secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), con riferimento al primo trimestre del 2022, a parità di ore lavorate, l’input di lavoro è cresciuto del 6,7% rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente.
L’incremento tendenziale dell’occupazione si è tradotto in un aumento di 905 mila unità – pari al 4,1% in un anno – e ha interessato sia i dipendenti a tempo indeterminato, sia, in particolar modo, i lavoratori a tempo determinato, oltre gli indipendenti. A ciò è correlata la diminuzione del numero dei disoccupati e degli inattivi, tra i 15 e i 64 anni, rispettivamente del 16% e del 6,1% in un anno, registrando, quindi, complessivamente, 51 mila soggetti in meno privi di occupazione. La tendenza del dato complessivo, nell’Aprile 2022, tuttavia, pare flettersi con riguardo al numero degli inattivi che risulta, invece, in crescita con meno 17 mila unità – senza distinzione di età o di genere – rispetto al mese antecedente.
Ciononostante, al riscontrato aumento, in termini generali, della classe degli occupati, fa da contraltare una significativa contrazione del numero dei soggetti in cerca di lavoro. Difatti, come emerge dai dati raccolti dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, sin dal secondo trimestre del 2021, si è riscontrata una tendenziale crescita del 43,7% delle cessazioni dei rapporti di lavoro, con un picco di 2 milioni e 587 mila dimissioni proprio tra Aprile e Giugno. Ciò rappresenta un netto aumento delle interruzioni dei rapporti di lavoro del 37% rispetto al trimestre precedente (Gennaio-Marzo 2021), con un incremento di 768 mila unità rispetto al medesimo periodo dell’anno prima.
I dati considerati debbono essere inquadrati in una nuova e più ampia mappatura delle transizioni che stanno interessando il mercato del lavoro e che riguardano, specialmente, la fascia più giovane della popolazione lavoratrice. L’epoca post pandemica è, difatti, stata appellata, a livello mondiale, come epoca della Great Resignation – o Big Quit o Great Reshuffle o, secondo taluni, Great Attrition. Il termine definisce un fenomeno di portata globale che vede i giovani lavoratori – specialmente Millenial e Gen Z – dotati di skill medio-elevate abbandonare occupazioni stabili per intraprendere nuove professioni con modalità di lavoro innovative, più flessibili e fluide, in linea con le proprie esigenze di vita privata, alla ricerca di una differente realizzazione personale e con l’obiettivo di ricercare condizioni economiche più soddisfacenti. La Big Quit ha colpito, sin dall’inizio dello scorso anno, gli Stati Uniti dove un americano su quattro decide di lasciare carriere avviate per avviare attività autonome; in Cina, invece, i più giovani si sottraggono a circuiti lavorativi in cui l’individualità del lavoratore è azzerata, mentre in Australia un lavoratore sì e un lavoratore no pensa di abbandonare la propria occupazione. I riflessi di questo fenomeno, però, interessano anche il panorama italiano. Secondo una recente ricerca condotta dall’Associazione Italiana Direzione del Personale (AIDP), sulla base del campione preso in considerazione, le dimissioni dei giovani lavoratori coinvolgono il 60% delle aziende, di cui il 32% nel settore informatico e digitale, il 28% nell’ambito della produzione e il 27% nel mondo del marketing e del commerciale. In linea di massima, si tratta di soggetti tra i 26 e i 35 anni, collocati nelle imprese dell’Italia settentrionale.
Tutto ciò parrebbe in linea con la nuova filosofia della cosiddetta You live only once economy ovvero una tendenza – come spiegato di recente dal Professor Luciano Monti della LUISS e dalla Dott.ssa Chiara Giovenzana a Radio Radicale – connotata da una serie di fattori europei e domestici, tra cui: l’istanza di individuare prima l’ubicazione della propria abitazione sulla base dei servizi funzionali al benessere della persona che forniscono la zona, poi il luogo di lavoro, raggiungibile anche con modalità digitali, quale lo smart-working e la volontà di ricercare un ottimale work-life balance; la valorizzazione e la centralità delle competenza del singolo; il divario generazionale che acuisce l’incapacità dei giovani di programmare la propria esistenza a lungo termine; l’esigenza di sviluppare nuove realtà per fare impresa, per esempio tramite start-up, e di svolgere attività in linea con la propria scala dei valori, come, ad esempio, in dimensioni che privilegino la sostenibilità. A tal proposito, oltre alla YOLO economy, si è iniziato a parlare di Passion economy rispetto alla possibilità di trasformare una propria passione in una fonte di reddito. Secondo lo studio di VISTA un italiano su tre avrebbe già convertito un proprio hobby o svago in una attività lavorativa parallela, nell’ottica di potervi trarre maggior soddisfazione e appagamento personale. Non solo, secondo uno studio condotto dal Ministero dell’economia e delle finanze (MEF), il numero di partite IVA aperte nel 2021 è aumentato del 18% rispetto all’anno precedente.
A conferma dei dati predetti, una fotografia dell’Osservatorio HR del Politecnico di Milano, da cui emerge che, in riferimento all’ultimo anno, il turnover è aumentato per il 73% nelle nostre aziende: un lavoratore su due ha cambiato lavoro o è intenzionato a farlo nel breve termine, mentre solo un dipendente su dieci riferisce di trovarsi bene sul luogo di lavoro e solo il 14% dei lavoratori si sente pienamente coinvolto rispetto alle proprie mansioni. Inoltre, per quanto una ricerca di lavoro su cinque miri all’ambito delle professioni digitali, gli investimenti aziendali nel digital in merito alle risorse umane sono aumentati del solo 5% e ben il 95% delle imprese non è in grado di attrarre e sviluppare le professionalità necessarie per attraversare la trasformazione digitale a cui il mercato del lavoro non può sottrarsi.
Oggi si pongono, quindi le basi per una nuova sfida, indispensabile per sostenere le trasformazioni che il mercato del lavoro deve poter affrontare, che conduca a ridisegnare politiche del lavoro più corrispondenti alla realtà, in grado di reinterpretare le modalità e le tipologie di lavoro ereditate dal mondo pre-pandemia, seguendo, in primo luogo, i binari del benessere del lavoratore, della digitalizzazione e dell’applicazione delle nuove tecnologie al mercato del lavoro, oltre allo sviluppo delle soft skill e di competenze trasversali, al di fuori dei paradigmi tradizionali e nell’ottica di potenziare il grado di occupabilità del lavoratore, anche partendo dal momento della prima formazione. A questo proposito, esistono già dei modelli di didattica orientativa, per esempio, a Singapore – ove il tasso di disoccupazione è molto basso e i lavoratori frequentano dei corsi annuali per potersi formare rispetto alle proprie passione/interessi così da rimanere occupabili – è stata fondata la Trehaus School, la prima scuola materna in cui, tra le materie insegnate, vi sono public speaking, empatia, grinta, tenacia, resilienza e determinazione, finalizzate allo sviluppo di abilità che potranno meglio orientare, un domani, le scelte di carriera degli studenti in maniera libera e consapevole. Il motto dell’asilo ne riassume a pieno la missione “Raising changemakers of future through education” (Crescere i costruttori di futuro attraverso l’istruzione).
Giulia Gozzelino