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16 Gennaio 2025
Economia

Imprese e cambiamenti climatici: che fare?

Probabilmente, senza imprese non avremmo mai sentito parlare di crisi ecologica.

È evidente che in assenza di un processo di industrializzazione, molti dei problemi che definiamo di tipo “ambientale” non sarebbero mai stati registrati, come d’altra parte è avvenuto fino a pochi anni fa.

L’evoluzione della normativa ambientale sulle emissioni

Se volessimo considerare la normativa ambientale come un indicatore dell’esistenza di una percezione diffusa del problema, a parte alcune occasionali regolamentazioni sull’uso di risorse liberamente accessibili – come pascoli, fiumi e foreste – che sono state gestite in comune dal più remoto passato (ci sono normative piuttosto esplicite sull’uso di fiumi e preservazione di particelle forestali già nelle colonie americane del ‘600, ma alcune regole locali sono ancora più antiche), le prime norme dedicate espressamente alle emissioni vedono la luce tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo (ad esempio, in America il River and Harbor Act del 1899 e l’Oil Pollution Act del 1924 che regolano le emissioni nelle acque fluviali e marine; o il Public Health Act britannico del 1866 dedicati ai danni sanitari dovuti alle emissioni da combustione di carbone). Tuttavia, per riconoscere una maggiore consapevolezza del nesso tra produzione industriale e impatti ambientali avversi occorre aspettare gli anni ’60 del XX secolo, quando le prime normative ambientali – benché ancora basate sul parallelismo tra qualità dell’ambiente e salute umana – iniziano a fiorire nella maggior parte dei Paesi occidentali.

Insomma, la piena consapevolezza del problema ambientale e del drammatico nesso tra produzione industriale e compromissione della qualità dell’ambiente e delle sue specifiche componenti (aria, acqua, risorse naturali, …) risale a circa 60 anni fa.

L’andamento delle emissioni: il caso del diossido di carbonio (CO2)

Se leggiamo i grafici relativi all’andamento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre (come quello riportato qui) possiamo notare una certa coerenza con l’andamento della legislazione ambientale, ma anche un successivo, sostanziale incremento del tasso di crescita delle emissioni a partire dagli anni in cui si è assunta piena consapevolezza “istituzionale” del problema.

Quantità di CO2 in atmosfera ed emissioni annuali dal 1750 al 2021 (NOAA Climate.gov)

Precisiamo che la CO2 (o diossido di carbonio) non è un inquinante in senso proprio e che i modelli di produzione e di consumo prevalenti sono responsabile di una pluralità di inquinanti che – per omogeneità – possiamo qualificare in ogni caso come “emissioni”, indipendentemente dai loro impatti e dai relativi “bersagli”. È quanto mai opportuno ricordarsi anche degli altri inquinanti, diversi dalle costantemente citate emissioni di CO2, che spesso incidono direttamente sulla salute umana e compromettono irrimediabilmente il funzionamento e la qualità di ecosistemi vitali per la continuazione della vita sul pianeta – o piú modestamente nel territorio in cui viviamo.

Il problema della produzione industriale

Man mano che l’economia globale e la popolazione crescono, aumenta anche la domanda di materiali e beni: questo fenomeno tende a favorire l’espansione delle emissioni legate alla produzione industriale.

In particolare alcuni settori industriali sono considerati responsabili della maggior parte delle emissioni di CO2, al punto che uno studio condotto alcuni anni (Carbon Majors Report) fa individuò 100 gruppi industriali responsabili di oltre il 70% delle emissioni complessive per il periodo compreso tra il 1988 e il 2017, suggerendo che proprio questi possano svolgere un ruolo-chiave nell’avviare un cambiamento sistemico nel modo di affrontare la crisi climatica. I settori coinvolti sono tendenzialmente quelli della produzione di energia, petrolio, carbone e gas naturale sia con riferimento alle emissioni di CO2 da impianti industriali sia a quelle da prodotti commercializzati, come mostrano diversi indici elaborati dall’Università del Massachussets Amherst nel 2022 con riferimento alle aziende con sede negli Stati Uniti (Greenhouse Suppliers 100 Polluters Index, Greenhouse 100 Polluters Index).

Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, il consumo energetico dell’industria (incluso il settore delle costruzioni e altri settori) rappresenta oggi quasi il 40% del consumo finale globale ed è ancora dominato dai combustibili fossili, in particolare dal carbone. Si tratta del secondo settore per emissioni prodotto, che segue quello energetico, come illustra il grafico riportato di seguito.

Emissioni globali di CO2 legate all’energia per settore nel 2022. (IEA, 2023, Paris https://www.iea.org/data-and-statistics/charts/global-energy-related-co2-emissions-by-sector, IEA. Licence: CC BY 4.0)

 

I dati relativi al 2022 indicano tra i settori con il maggiore aumento di emissioni rispetto all’anno precedente la generazione di elettricità e calore (+1,8% o 261 milioni di tonnellate). Invece le emissioni industriali sono diminuite (-1.7%) per una contrazione generalizzata dei livelli di produzione e in particolare per il calo del 10% nella produzione di cemento e un calo del 2% nella produzione di acciaio in Cina che hanno generato complessivamente una riduzione nazionale delle emissioni industriali di 161 milioni di tonnellate.

Gli impatti economici e quelli aziendali dei cambiamenti climatici

Facciamo ancora fatica a quantificare gli impatti economici e sociali attesi dei cambiamenti climatici, ma iniziamo a percepire il rischio tanto del loro impatto diretto quanto del fallimento delle politiche pubbliche e delle scelte private orientate al contrasto ai cambiamenti climatici.

Secondo il più recente Global Risk Report (2023), elaborato ogni anno dal World Economic Forum, le crisi di tipo politico, economico e sanitario a cui assistiamo negli ultimi anni stanno distogliendo investimenti dal rischio climatico, qualificato come di medio e lungo termine. A pagarne i costi saranno in primis gli ecosistemi – il cui ruolo per l’economia e la salute globale del pianeta è ancora sottovalutato, anche per le incertezze implicite in questo genere di valutazioni. Secondo il WEF, in assenza di significativi cambiamenti politici e investimenti, l’interazione tra gli impatti dei cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, la sicurezza alimentare e il consumo di risorse naturali accelererà il collasso dell’ecosistema, minaccerà l’approvvigionamento alimentare e i mezzi di sussistenza soprattutto nelle economie più vulnerabili al clima, amplificherà gli impatti dei disastri naturali e limiterà i progressi nella riduzione delle emissioni.

Fortunatamente, il sistema economico inizia ad attivarsi direttamente sia nella misurazione del proprio contributo alle emissioni nazionali e globale di CO2, sia nell’individuazione dei principali rischi climatici a cui è esposto: il primo passo per la ricerca dei rimedi.

Molte aziende oggi cercano di misurare regolarmente le emissioni connesse ai rispettivi sistemi di produzione e alle filiere in cui si inseriscono. Le imprese appartenenti ai settori che rientrano nel sistema di scambio europeo delle emissioni di CO2 (il cosiddetto ETS) sono sostanzialmente tenute a tenere una contabilità di questo tipo.

Una rigorosa metodologia di misurazione delle emissioni permette alle imprese di individuare le parti dei propri processi di produzione, approvvigionamento, distribuzione e vendita che sono responsabili della maggior parte delle emissioni.

Altrettanto importante è prendere atto – almeno in termini di stima – dei danni potenziali che i cambiamenti climatici potrebbero generare nei prossimi anni sul tipo di attività che le imprese svolgono e sui settori in cui operano. Sono sempre più numerosi gli studi che affrontano questo tipo di problema e gli impatti potenziali e reali sono evidenti ad esempio nei settori del turismo, dell’agricoltura, dell’immobiliare, delle assicurazioni e altri ancora.

A bene vedere, si tratta di stimare due tipologie di problemi.

La prima tipologia si riferisce ai danni diretti, di tipo fisico, relativi alla riduzione della produzione dei beni o servizi oggetto dell’attività di impresa (come nel caso di scarsità idrica cronica in agricoltura o di scarsità o irregolarità nell’innevamento e nelle temperature nel settore del turismo invernale).

La seconda tipologia si riferisce invece ai danni indiretti, generati da modifiche normative radicali finalizzate a favorire una transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, come nel caso dell’abbandono di determinate tecnologie o modalità di produzione industriale (come il motore a scoppio), di determinati tipi di combustibile (come il petrolio) o di pesanti disincentivi rispetto ad alcuni stili di consumo (ad esempio una forte tassazione dei viaggi aerei).

Entrambe le tipologie si riferiscono a rischi di impresa, che vengono identificati rispettivamente come “rischi fisici”, legati cioè a impatti concreti, e “rischi di transizione”, legati a impatti di tipo politico-istituzionale e macroeconomici.

Cambiamenti climatici, cambiamenti aziendali e cambiamenti sociali  

Quali sono le ragioni che hanno spinto le imprese negli ultimi anni a una conversione all’impegno alla riduzione delle emissioni di CO2 o a una più efficace gestione dei rischi derivanti dai cambiamenti climatici per i mercati in cui esse operino?

Alcune imprese possono cogliere l’opportunità offerta dalla transizione climatica (non di rado supportata da rilevanti incentivi e sussidi) per introdurre innovazioni radicali e generare al contempo un vantaggio di tipo competitivo più ampio con effetti positivi su profitti e fatturato e posizione strategica nei mercati.

Altre imprese possono essere indotte a migliorare le proprie competenze in termini di risk management, aggiungendo alle tradizionali categorie di rischi anche quella climatica in modo da poter affrontare i possibili costi che gli impatti diretti e indiretti dei cambiamenti climatici con maggiore tranquillità ed efficacia.

Più in generale occorre ricordare che le imprese sono una parte integrante della società e non solo del sistema economico in cui viviamo: le imprese sono soprattutto le persone che vi lavorano quotidianamente e quelle che consumano i beni e i servizi che queste offrono sul mercato. Pertanto tenderanno sempre più naturalmente a rappresentare preferenze e preoccupazioni diffuse sullo stato del pianeta e sulle possibili ripercussioni dei cambiamenti climatici sulla loro qualità della vita.

Senza la partecipazione delle imprese non è possibile modificare l’andamento delle emissioni e quindi la concentrazione della CO2 in atmosfera: se è vero che le imprese sono una parte rilevante del problema climatico, è altrettanto vero che possono essere gli attori-chiave della soluzione al problema climatico.

È difficile capire cosa possa fare una singola impresa per modificare un flusso globale come quelli rappresentati dai modelli emissivi usati dalle Nazioni Unite, ma i modelli macroeconomici giá consentono di stimare parametri più facilmente utilizzabili nelle scelte dell’impresa, come il costo sociale del carbonio o l’ammontare probabile di una tassa sulle emissioni.

Queste informazioni possono essere usate per la pianificazione interna alle organizzazioni e incentivano alcune imprese a portarsi avanti per non essere impreparate quando si trovassero di fronte a misure restrittive, tasse o altre misure finalizzate a conseguire risultati rilevanti per le politiche climatiche internazionali.

Esistono già oggi degli strumenti applicativi che le imprese possono usare per gestire la transizione climatica o energetica e il contesto di riferimento è in continua evoluzione.

In generale questi strumenti permettono a un’impresa di valutare il proprio impatto climatico soprattutto in termini di emissioni di CO2, ma anche di interagire con i propri clienti per migliorare il loro approccio ai rispettivi prodotti o servizi, in modo da aumentarne l’efficienza energetica o climatica attraverso scelte di consumo più responsabili e a lavorare all’interno della loro fliera, con clienti e fornitori, condividendo i propri obiettivi di riduzione delle emissioni o di maggiore efficienza energetica.

Sono strumenti relativamente semplici da adottare, ma richiedono naturalmente un impegno piuttosto esplicito da parte delle imprese che intendono usarli e lo sviluppo di competenze non ancora facilmente disponibili, come i Piani di Transizione Climatica. Si tratta di documenti che indichino obiettivi di riduzione e gestione delle emissioni e azioni puntuali per il loro conseguimento, che diverranno di importanza cruciale specialmente al fine di ottenere investimenti, credito e finanziamenti – sempre più vincolati a considerazioni di sostenibilità delle aziende a cui siano destinati.

Una nota positiva

Abbiamo lasciato intendere che le imprese abbiano una grande responsabilità, ma anche un enorme potenziale per guidare una transizione climatica.

Citiamo una tendenza registrata con riferimento al 2022 dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA, CO2 emissions in 2022) anno in cui specialmente in alcune regioni del mondo colpite da catastrofi naturali si è reso necessario riavviare la produzione di energia da centrali a carbone. Nonostante ciò abbia comportato un aumento delle emissioni di CO2, si è assistito anche a una contemporanea forte espansione delle rinnovabili che ha limitato l’impatto delle emissioni di energia da carbone sulle emissioni totali. Infatti le energie rinnovabili hanno soddisfatto il 90% della crescita globale dello scorso anno nella produzione di elettricità e la produzione solare fotovoltaica ed eolica sono aumentate ciascuna di circa 275 TWh, stabilendo un nuovo record annuale.

Gli strumenti per migliorare radicalmente la performance del nostro sistema industriale sono già in parte disponibili e hanno mostrato la loro efficacia. La strada da percorrere, questa volta, non è lunga perché occorre agire subito. Ma possiamo rilevare con sollievo che non siamo privi di strumenti per farlo.

Luca Cetara

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