Da oramai diversi mesi si alzano le voci preoccupate degli operatori economici e dei Centri Studi per l’impennata dell’inflazione. Solo pochi giorno fa l’ISTAT fotografava un’inflazione al 4,8%, dato che non si registrava dal 1996, che numeri alla mano significa una spesa per famiglia in Italia che aumenta di più di 1.400 euro all’anno. Il “caro energia”, del quale abbiamo parlato nello scorso articolo, traina la crescita dei prezzi al dettaglio investendo anche beni primari come quelli alimentari che crescono del 3.8%. E questo effetto può provocare contrazioni dei consumi che rallenterebbero in maniera significativa le prospettive di ripresa economica post pandemica, avendo effetti su commercio, industria, occupazione e sviluppo economico. Ci ritroviamo all’improvviso ad affrontare una situazione che pensavamo relegata nei libri di storia economica, con un tasso di inflazione che ci riporta ai tempi della lira. L’unico elemento positivo è rappresentato dalla tenuta dell’inflazione di fondo, quella che esclude i beni alimentari grezzi e i costi energia, che si mantiene in Italia su valori contenuti (+1,5% nel confronto annuo), e mostra anche nel complesso della UEM una dinamica non particolarmente espansiva (+2,5%), fattore che lascia immaginare un’uscita molto graduale dalla politica dei bassi tassi d’interesse. Ma quali ciriticità possiamo evidenziare? Molte e che colpiscono gli attori economici in pesi significativi anche se diversi. I consumatori potrebbero perdere fiducia nelle prospettive future e andrà valutata questa compressione come condizionerà i consumi futuri considerando la perdita di potere d’acquisto delle famiglie con riflessi sfavorevoli sulla dinamica complessiva dell’attività economica. I prezzi al dettaglio viaggiano ormai verso rincari a due cifre con prodotti alimentari, beni indispensabili, che a gennaio salgono del +3,8% su base annua. Il settore dei trasporti (+7,7% a gennaio) determina un aumento di spesa che supera i 400 euro l’anno a famiglia e per le imprese fa lievitare i costi di produzione che poi si riverberano sui consumatori stessi. Basta pensare che la maggior parte degli aumenti è condizionato dai rincari dei beni energetici, senza i quali oggi l’inflazione sarebbe pari solo all’1,8%. Per quello che concerne il settore primario agricolo, il balzo dei beni energetici si trasferisce a valanga sui bilanci delle imprese agricole strozzate da aumenti dei costi che costringono a spegnere le serre di fiori ed ortaggi, a lasciare le barche in banchina e a tagliare le concimazioni dei terreni con il raddoppio dei costi delle semine. Questa situazione decisamente difficile ha visto il settore agricolo, in controtendenza all’aumento generale del Pil del 6,5% nel 2021, calare il proprio valore aggiunto. A far aumentare i costi alla produzione è il caro energia con l’agroalimentare che assorbe oltre il 11% dei consumi energetici industriali totali per circa 13,3 milioni di tonnellate di petrolio equivalenti (Mtep) all’anno, secondo l’analisi della Coldiretti su dati Enea. La filiera della distribuzione soffre confermando la notevole incidenza dei beni energetici sull’incremento dell’inflazione, che cresce a tassi che non si vedevano da molti anni. Si delineano forti aumenti delle cosiddette ‘bollette’ petrolifere per le famiglie e le imprese, che si aggiungono agli effetti degli aumenti dei prezzi energetici sull’industria, nazionale ed internazionale, registrati nei mesi scorsi e che ora stanno espandendosi all’inflazione al consumo. Quest’ultima probabilmente si attesterà quest’anno intorno al 3,5%. La politica economica dovrà, perciò, scongiurare che vengano bruciati, ancora, miliardi di consumi tali da allontanare ulteriormente il recupero dei livelli pre-crisi: già ora sono spostati in avanti di almeno 6 mesi, al primo semestre del 2024. Senza una ripresa dei consumi ed un rilancio dei settori più colpiti dalla pandemia, turismo e terziario, si pregiudica infatti la reale ripartenza del Paese. E qui dobbiamo evidenziare come la strategia dell’Europa sia fallimentare. Con il fatto di non voler sottoscrivere contratti a lungo termine sul gas con la Russia, paghiamo circa 4 volte in più il prezzo del gas rispetto ad esempio ai competitor cinesi e andando a compromettere la competitività delle imprese europee verso i competitor asiatici. Va bene parlare di transizione ecologica, ma c’è il rischio è di attraversare un lungo tunnel di crisi senza soluzioni a breve termine. Serve una seria politica economica che possa rendere competitive le nostre aziende, altrimenti gli effetti economici della pandemia saranno nulla a confronto di quelli di un’inflazione legata a prezzi incontrollati.
Franco Colombo
Presidente IRSEU