La pandemia da Covid-19, quale fenomeno complesso di natura multidimensionale, ha avuto significative ripercussioni sulle economie degli Stati e sui rapporti di lavoro, incidendo negativamente con effetto istantaneo sui sistemi sanitari nazionali, sul mercato del lavoro globale, sull’ambito occupazionale, sulle relazioni industriali e, più in generale, sulle politiche attuate dai sistemi territoriali di Welfare.
Ciò ha imposto la ridefinizione in itinere degli assetti per fronteggiare le esigenze e i bisogni dei lavoratori e delle famiglie.
In altri termini, il profilarsi di nuovi rischi e di correlate istanze sociali ha posto in evidenza le condizioni di vulnerabilità di alcune categorie, l’assenza di reti di supporto, i limiti delle attuali dinamiche e dei modelli organizzativi, sia in ambito privato che nel settore pubblico.
In molti Paesi, Italia inclusa, sono occorsi processi di rimodulazione e riqualificazione dell’impianto delle politiche sociali con la previsione di azioni e strumenti in grado di superare il concetto tradizionale di Welfare statale nella direzione di un Welfare comunitario, quali facce della medesima medaglia.
In tal senso, sulla scorta delle disfunzioni sperimentate nel contesto del Primo e del Secondo Welfare si sta profilando l’esigenza di un Welfare integrato non solo tra dipendenti e aziende ma anche con i territori per creare un circolo virtuoso ed efficienti reti locali nella direzione di un sistema di governance che coinvolga gli attori pubblici e privati, le istituzioni, i cittadini e i servizi locali, tutti soggetti attivi nella promozione del Welfare-mix, in un’ottica di coesione sociale e miglioramento della produttività del lavoro.
Ad oggi gli effetti economici della pandemia sono ancora indeterminati, per quanto i primi precipitati statistici indichino un gravissimo impatto sulla occupazione – secondo le stime dell’OIL oltre 250 milioni di disoccupati – e, a livello mondiale, un crollo del PIL pari al doppio di quello registrato con la crisi del 2008.
Tuttavia, con riguardo al panorama italiano, gli attuali strumenti, in termini di modelli organizzativi, politiche occupazionali e gestione delle relazioni industriali hanno dimostrato di non essere in grado di soddisfare le sopravvenute esigenze del mercato del lavoro, che sta vivendo una nuova fase di transizione.
A ciò si sommano, per un verso, i cortocircuiti sorti in sede di bilanciamento tra il diritto alla salute individuale e collettiva (ovvero tutela dell’ambiente), i valori liberali che permeano il nostro ordinamento e il modello normativo vigente che fa ancora perno sul contratto individuale. Per altro verso, sono emerse le complessità tecnologiche, organizzative, relazionali e culturali dei luoghi di lavoro e la predisposizione della materia ad essere innovata da parte delle parti sociali.
Le soluzioni prospettate in via emergenziale, quali lo smart working ovvero il blocco dei licenziamenti, paiono permanere in un alveo di “legislazione di emergenza pandemica transeunte”, mentre, in concreto, si sta assistendo a una prorompente trasformazione dello stile di vita del lavoratore e della sua famiglia, anche nella dimensione pubblicistico istituzionale, che si riflette sull’ontologia e sulla stessa geografia del lavoro, nonché sulla conformazione delle città.
Allo stato attuale, un cambio di passo, potrebbe sicuramente essere dettato da forme di Welfare di ultima generazione.
Significative sono, per esempio, le esperienze, già sperimentate in epoca anteriori alla pandemia, di collaborazione tra Welfare pubblico e aziendale privato orientate a creare opportunità di benessere a favore di soggetti senza attuare distinzioni tra lavoratori privati e cittadini, come quella avviata nel territorio del vicentino con il progetto “Alleanza Territoriale per le famiglie”. Il percorso di progettazione ha previsto l’introduzione della figura di una assistente sociale volta a prestare un servizio di ascolto e rilievo dei bisogni, ivi compresi i cd. bisogni silenziosi, messa a disposizione del lavoratore-consociato in un’ottica anche di responsabilizzazione collettiva.
In tal solco si è sviluppata, nell’ultimo decennio, come esempio di community development, una nuova forma d’impresa collettiva tramite le c.d. “cooperative di comunità” che, mediante l’attivazione di reti di collaborazione con diversi attori del territorio, da un lato, consente alle forze civiche di soddisfare taluni bisogni socio-economici delle comunità territoriali di riferimento, dall’altro lato, attua programmi con obiettivi economici ben definiti, quali l’implementazione di nuovi servizi o la creazione di nuovi posti di lavoro, nell’ottica di favorire una economia sociale e solidale.
La frammentarietà dell’attuale panorama del mercato del lavoro, e delle connesse emergenti problematiche, non consentirebbe una risposta univoca e la regolamentazione delle sfaccettature della transizione in esame potrebbe portare a pensare allo studio di modelli giuslavoristici di Welfare, organizzazione aziendale e relazioni internazionali su misura ovvero “di distretto”, in una costante integrazione tra piano privatistico e dimensione pubblica.
La diffusa crisi del Welfare State, inidoneo a rispondere ai reali bisogni dei lavoratori e delle strutture familiari e della non piena efficienza del secondo Welfare, potrebbe essere risolta, tuttavia, dal c.d. Welfare comunitario volto a sviluppare sinergie, riqualificare le classi dei soggetti beneficiari degli interventi, implementare sistemi di governance per la gestione di nuovi beni e servizi di Welfare ed introdurre un nuovo concetto di equità sociale.
Un esempio di tale evoluzione potrebbe essere rappresentato dal progetto “Beatrice – Welfare sul serio” avviato da alcuni Sindaci della provincia di Bergamo e finalizzato a mettere in rete, orizzontalmente e verticalmente, grazie a una piattaforma digitale, la sfera privata e la dimensione pubblica, offrendo a imprese, enti locali, cooperative sociali, sindacati e associazioni territoriali nuovi strumenti e risposte ai bisogni economici e sociali della comunità territoriale.
Un nuovo impulso all’innovazione dell’economia sociale, inoltre, potrebbe essere, inoltre, fornito dal c.d. Welfare generativo il quale non attinge meramente alle risorse provenienti dall’imposizione fiscale o ai trasferimenti monetari, ma è in grado di provvedere alla rigenerazione delle risorse già disponibili e alla base del funzionamento della rete anche in un’ottica di responsabilizzazione dei consociati che soddisfano i propri fabbisogni tramite la rete stessa.
Il concetto di Welfare culturale è, invece, tra gli obiettivi al centro degli Stati Generali del Patrimonio Italiano, insediati il 21 maggio 2021 con la prima convocazione presso il CNEL, volti anche alla promozione di un modello di benessere sociale che integri lo sviluppo e la valorizzazione del patrimonio nell’ottica di creare una nuova rete di lavoro e occupazione.
In conclusione, la sfida post COVID passa per un rinnovamento dei modelli di Welfare tradizionali, raccogliendo le disfunzioni dei modelli di stato sociale che di fatto risultano superati, in una prospettiva di sussidiarietà orizzontale e verticale, sostengano il benessere sociale ed economico delle comunità territoriali in un’ottica di integrazione tra interventi aziendali e istituzionali animati da target condivisi.
Ciò è possibile partendo da due argomenti comuni alla collettività territoriale: in primo luogo, la necessità di individuare un soggetto promotore, sia esso una impresa o una pubblica amministrazione, in grado di creare e divulgare azioni e buone prassi di Welfare, su tutto il territorio e coinvolgendo il maggior numero di attori possibili. In seconda battuta, sotto il profilo della governance, sviluppando nuove reti mediante l’istituzione di tavoli tematici di co-progettazione e la formazione di figure professionali ad hoc, nonché tramite il ricorso a contratti, intese o partnership.
Giulia Gozzelino
Avvocata e cultrice della materia
in diritto commerciale comparato