Progressi dalla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Dubai.
La COP28 della UNFCCC di Dubai si è aperta con un inatteso cambio di passo relativo alla compensazione dei danni da cambiamenti climatici sofferti da Paesi in ritardo di sviluppo.
Il presidente della conferenza di Dubai, Sultan Al Jaber, ha annunciato infatti l’accordo sul Fondo che assisterà i Paesi in via di sviluppo più vulnerabili agli effetti dannosi dei cambiamenti climatici. La creazione del fondo era stata concordata lo scorso anno durante la COP27 di Sharm El Sheikh, in Egitto, ma il meccanismo diventa operativo solo ora dopo l’accordo, raggiunto durante cinque incontri del comitato internazionale responsabile per la sua attivazione. Una velocità impressionante, considerati i tempi tipicamente molto lenti dei negoziati climatici globali, sostanzialmente incapaci di allinearsi ai fenomeni che si propongono di gestire.
Diversi Paesi hanno subito annunciato la disponibilità a versare il proprio “gettone” per contribuire al fondo: tra gli altri 100 milioni di dollari dagli UAE, dalla Germania, dall’Italia, 60 dal Regno Unito, 10 dal Giappone, e 17,5 dagli USA. A questi se ne aggiungono giorno dopo giorno altri.
Ma quale somma occorrerebbe per far fronte ai danni dei cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo? Alcune stime parlano di 1500 miliardi di dollari l’anno di danni connessi ai cambiamenti climatici (Rising, 2023), mentre i principali Paesi beneficiari dei contributi mobilitati dal Fondo “Loss and Damage” chiedono almeno 400 miliardi. In termini più pragmatici, l’obiettivo dei promotori del fondo è di raccogliere 100 miliardi entro il 2030 presso la Banca Mondiale, che gestirà il Fondo per i prossimi quattro anni con un sistema decisionale più aperto che coinvolgerà anche i Paesi direttamente interessati dai risarcimenti.
Al di là delle considerazioni sulla capienza del Fondo e della vivace (e storica) polemica dei negoziati climatici, che vedono da sempre i due schieramenti dei Paesi in via di sviluppo e di quelli “occidentali”, cerchiamo di spiegare le ragioni e le funzioni di questo Fondo.
Si tratta di finanziamenti stanziati per far fronte ai danni e risarcire le perdite connesse agli impatti climatici, che sosterranno soprattutto alcune aree geografiche tradizionalmente “svantaggiate” (sono particolarmente sensibili alla questione e politicamente attive, ad esempio le piccole isole, riunite in un’alleanza globale chiamata AOSIS).
Stato del clima, impatti visibili, danni inevitabili
Il pianeta si è già riscaldato di 1,1 gradi Celsius a causa del cambiamento climatico. Milioni di persone oggi stanno affrontando le conseguenze di temperature più elevate, innalzamento del livello dei mari, alluvioni più devastanti e piogge caratterizzate da frequenza sempre meno prevedibile.
Le politiche climatici classiche di mitigazione (cioè riduzione delle emissioni di CO2 e altri gas a effetto serra) e di adattamento (cioè volte ad accrescere la resilienza e la capacità di “reggere” agli impatti avversi dei cambiamenti climatici dei territori) richiedono risorse significative a tutela della popolazione, degli investimenti e della qualità della vita.
Tuttavia, i cambiamenti climatici sono più rapidi delle politiche nel manifestare i propri effetti, così alcuni impatti e le perdite e danni conseguenti sono inevitabili e già contabilizzati. Per questo i negoziati delle Nazioni Unite sul clima sono da alcuni anni concentrate non solo su come ridurre le emissioni e migliorare la capacità di adattamento di individui, territori e sistemi economici, ma anche su come far fronte a questi danni considerati ormai inevitabili.
È proprio sul problema di come ripagare i danni causati dai cambiamenti climatici che non riusciremo a evitare, specialmente nei Paesi più fragili e vulnerabili, che si inserisce il meccanismo del cosiddetto “Loss and Damage”.
Che cos’é il “Loss and Damage”?
Nel gergo della politica climatica, con l’espressione “Loss and Damage” si fa riferimento a tutte le conseguenze dei cambiamenti climatici rispetto a cui alcune comunità non possono adattarsi e quindi le subiranno. Ciò può avvenire in due casi: quando le conseguenze sono oggettivamente inevitabili oppure quando le comunità colpite non dispongono dei mezzi finanziari, tecnici e culturali per far fronte agli impatti che generano determinate conseguenze dannose.
In termini operativi, occorre definire chiaramente che cosa rientri e che cosa non rientri nella categoria di “Loss and Damage”.
Innanzitutto, la categoria si applica sia a impatti che derivino da eventi climatici estremi relativamente rari e violenti, sia a impatti che derivino da cambiamenti graduali di lungo corso, chiamati in gergo “slow-onset”. Tra i primi rientrano la siccità, le ondate di calore, le alluvioni, le tempeste e i cicloni tropicali. Tra i secondi la desertificazione, la perdita di biodiversità, il degrado dei suoli, la fusione dei ghiacciai, l’acidificazione oceanica, l’aumento del livello dei mari, la risalita del cuneo salino nei fiumi e l’aumento graduale di temperatura.
Le conseguenze degli impatti inevitabili sono classificate in due categorie, in base al loro rilievo economico:
- le perdite economiche, riferite al caso della perdita di risorse, beni e servizi che sono comunemente scambiati nei mercati e possono generare redditi individuali o di impresa, o possiedono un valore di capitale come nel caso delle infrastrutture o degli immobili;
- le perdite non economiche, riferite a una categoria residuale di impatti relativi a beni e servizi comunemente non scambiati nei mercati, come la vita e la salute umana, la mobilità, il territorio, il patrimonio culturale, la conoscenza locale, l’identità culturale ma anche le risorse ambientali e i servizi ecosistemici.
Tecnicamente, il “Loss and Damage” è un meccanismo procedurale, messo a punto durante la COP19 di Varsavia nel 2013, finalizzato a sostenere i Paesi esposti agli impatti considerati irrimediabili. Costituisce di fatto il terzo pilastro della politica climatica che si affianca ai due più classici della mitigazione e dell’adattamento e si pone l’obiettivo di aiutare le persone dopo che abbiano subito gli impatti legati al clima. Si lega direttamente agli altri due pilastri della politica climatica, registrandone in un certo senso il fallimento, quanto meno nel breve periodo. Rappresenta in un certo senso un’azione climatica di ultima istanza.
Per esempio, secondo l’IPCC, dal 70% al 90% delle barriere coralline tropicali non sopravviverà al 2050 anche se l’aumento della temperatura fosse limitato a 1,5 gradi C; la scomparsa sarebbe quasi totale con un aumento di 2 gradi C: ciò comporta perdite irreversibili di biodiversità e forti impatti sulle comunità costiere la cui sopravvivenza dipende dal consumo e dalla vendita di specie ittiche caratteristiche dell’ecosistema corallino. In questo caso, che si manifesteranno danni e perdite economiche e non economiche è evidente. Si tratta al più di quantificarle, ma la situazione si presta all’attivazione di finanziamenti a copertura dei danni attraverso il fondo “Loss and Damage”.
La lettera degli accordi internazionali per il clima chiarisce che l’adozione di un meccanismo di “Loss and Damage” non costituisce un’ammissione di responsabilità per i danni da parte dei Paesi donatori, che potrebbe diventare un precedente pericoloso e dare vita a un immenso contenzioso internazionale e a richieste di risarcimento incalcolabili da parte dei Paesi svantaggiati.
Questo Fondo non è tuttavia l’unico strumento finanziario esistente per affrontare il problema dei danni climatici, anche perché sarebbe visibilmente insufficiente. Ci sono numerosi canali e iniziative parallele a quelle formali della Convenzione Quadro riconosciute formalmente a Sharm-El-Sheikh lo scorso anno, che il Comitato di transizione incaricato di supervisionare il nuovo Fondo si è impegnato a comporre tra loro come in un mosaico le cui tessere sono soluzioni differenti orientate a un fine comune.
Le altre soluzioni finanziarie
Nonostante la coesistenza di numerose iniziative finanziarie, non sempre quelle esistenti possono essere adottate per la compensazione di danni derivanti dai cambiamenti climatici: come ad esempio la difficoltà a finanziare attraverso aiuti umanitari le perdite di gettito fiscale dei governi delle piccole isole del Pacifico in seguito al riscaldamento delle acque e alla conseguente migrazione di alcune specie ittiche. Disponiamo già di altre soluzioni per affrontare il rischio climatico e i danni e le perdite dal punto di vista finanziario, come il Fondo del Gruppo dei 20 Paesi più vulnerabili (V20) e lo scudo globale contro il rischio climatico promosso dal G7 e dallo stesso V20.
Il Fondo può idealmente finanziarie azioni molto diverse tra loro, il cui fine ultimo sia porre rimedio alle perdite e ai danni climatici sofferti in un determinato territorio: dalle assicurazioni indicizzate sul tempo atmosferico, ai fondi mutualistici per finanziare interventi in situazioni di emergenza, agli interventi umanitari e di emergenza disposti in seguito a un disastro naturale. Questi meccanismi permettono di “chiudere il cerchio”, attivandosi anche in seguito al buon esito di azioni di adattamento che abbiano permesso di ridurre drasticamente gli impatti sulle persone o sul patrimonio in caso di eventi climatici (come ad esempio un sistema di allerta precoce che abbia permesso di ridurre drasticamente i ricoveri ospedalieri dopo una catastrofe), per ristabilire in tempi brevi le condizioni precedenti, magari ricostruendo infrastrutture ed edifici danneggiati. In casi estremi, i fondi stanziati per danni e perdite possono contribuire a finanziare il trasferimento dei residenti in altri siti qualora quelli in cui vivevano fossero irrecuperabili.
Secondo gli osservatori che hanno partecipato alla COP di Dubai, l’accordo raggiunto quest’anno dimostra il riconoscimento del fatto che le perdite e i danni non sono un rischio remoto, ma un fatto acclarato per quasi la metà della popolazione mondiale: i fondi permettono di ricostruire meglio e di scegliere soluzioni più resilienti e sostenibili non solo per il contenimento della crisi climatica, ma soprattutto per evitare che i risultati di decenni di sviluppo nei Paesi più fragili possano essere annichiliti in pochi istanti.
Luca Cetara