Il concetto di economia circolare ricorre nel dibattito pubblico con frequenza crescente. Esso lo colloca nei contesti più diversi: dalla gestione dei rifiuti al design di un utensile da cucina, dalla lotta ai cambiamenti climatici alla riduzione nei consumi di materie prime. In linea generale non si tratta di usi erronei dell’idea di circolarità, tuttavia può essere interessante affrontare la questione fornendo qualche riferimento preciso.
Possiamo provare ad analizzare il tema della circolarità a partire dal ciclo di vita di un prodotto o di un servizio. La vita di un prodotto o di un servizio, come lo stile di vita delle persone che ne usufruiscono, genera una serie di impatti ambientali in tutte le sue fasi: “dalla culla alla tomba”, come recita un’espressione ricorrente tra gli addetti ai lavori. In alcune fasi gli impatti del prodotto o del servizio sono più intensi, in altre meno; inoltre, in alcune fasi è più semplice ridurli, mentre in altre sarebbe talmente costoso da porre in pericolo la continuità del processo produttivo.
La circolarità come efficienza del ciclo di vita
Nel complesso, per applicare il concetto di “economia circolare” occorre conseguire una riduzione: ora dell’uso di materiali non essenziali per la funzionalità del prodotto finale, sia in assoluto sia favorendo il riuso dei materiali residui alla fine del ciclo di vita del prodotto e la minimizzazione dei rifiuti. Questi meccanismi sono in effetti tutti orientati a migliorare l’efficienza della produzione e del consumo di prodotti e servizi: i metodi disponibili per ottenere un incremento di efficienza sono molti e possono fare uso di numerose leve (dalla riduzione dei consumi energetici, alla riduzione del peso del singolo prodotto e quindi della quantità di materie prime necessarie a costruirlo, all’estensione del ciclo di vita di un prodotto mediante la previsione di servizi di assistenza capillari), ma è generalmente sempre vero che un modello circolare riduce le emissioni di CO2 e più in generale gli impatti ambientali associati alle fasi del ciclo di vita di un prodotto o di un servizio.
Naturalmente, per migliorare l’efficienza di un processo di produzione o di consumo occorre conoscerlo a fondo e scandagliarlo in tutte le sue fasi costitutive per individuare dove si collochino le emissioni, i consumi energetici e di materiali, gli sprechi evitabili e quantificarli. Individuate tali fasi, si può cercare di agire in corrispondenza dei punti più critici per ottenere guadagni di efficienza, riduzioni di consumi o risparmi di risorse, materie prime o energia.
Calcolare l’efficienza: due metodi per due contesti
Due metodi utilizzati per l’analisi del ciclo di vita di un prodotto o di un servizio molto noti sono la misurazione dell’impronta di carbonio di un prodotto o servizio e il calcolo delle “food miles” (letteralmente: le miglia alimentari): il primo si basa su un calcolo standardizzato delle emissioni di CO2 connesse a stili di vita individuali alternativi (sulla base di scelte di consumo, abitudini di mobilità, consumi domestici, attitudini alimentari, etc.); il secondo si basa sull’analisi della filiera alimentare e della relativa catena di distribuzione e connette gli impatti ambientali associati al consumo di cibo al percorso che gli alimenti compiono dalla loro nascita fino allo scarto degli avanzi.
L’impronta di carbonio individuale
Dell’impronta di carbonio di un’impresa abbiamo già parlato in un precedente contributo, ma possiamo qui introdurre una particolare versione del concetto che si riferisce alla carbon footprint individuale. Si tratta innanzitutto di una misura delle emissioni di CO2 e altri gas serra espresse in una unità di misura unica (i CO2e, dove la e sta per equivalenti) che si riferisce non già al ciclo di vita di un prodotto ma allo stile di vita di una persona e viene solitamente riferita a una scala temporale annuale.
Le persone producono gas serra attraverso i propri comportamenti quotidiani: bruciando carbone, petrolio e gas per produrre energia, abbattendo foreste per far spazio a colture agricole, e mediante diversi processi di produzione. A livello individuale, contribuiamo alla generazione di emissioni di CO2e mediante le nostre scelte di consumo relativamente all’uso di energia elettrica, ai viaggi in treno o in aereo, ma anche ai nostri consumi alimentari e non (tutto ciò che consumiamo viene prodotto e trasportato per cui genera direttamente o indirettamente una certa quantità di emissioni di CO2e) e all’origine e alla modalità e lunghezza del trasporto di questi beni.
Calcolare l’impronta di carbonio individuale permette di confrontare l’impatto dello stile di vita di ciascuno di noi con dei valori medi nazionali o globali e di farci così un’idea del costo in CO2e delle nostre abitudini di consumo, cioè di quanta CO2e produciamo nella nostra vita quotidiana.
Ci sono degli strumenti di calcolo liberamente accessibili a tutti, che permettono di farsi un’idea del proprio peso in termini di emissioni di carbonio. Ne è un esempio Il calcolatore messo a punto dal WWF in collaborazione con l’Università di York, che valuta i comportamenti e le scelte di consumo individuali relativamente a quattro dimensioni fondamentali:
- ‘Cibo’ cioè: dieta, scarti alimentari e abitudini di acquisto
- ‘Casa’ cioè: tipo e uso di energia in casa e presenza di misure per il risparmio energetico
- ‘Viaggi’ cioè: uso di mezzi di trasporto pubblico e private per lavoro e tempo libero e viaggi aerei.
- ‘Beni di consumo’: cioè gli acquisti di beni di consumo.
È possibile usare questo software online disponibile su https://footprint.wwf.org.uk/ per capire se il nostro stile di consumo è sostenibile o no. Basta rispondere a un questionario, in effetti piuttosto dettagliato, che sulla base delle nostre risposte a una serie di quesiti standard stima le emissioni di carbonio di cui siamo responsabili in diversi momenti della nostra vita e infine le aggrega. Una volta letto il risultato, e preso atto del fatto che siamo cittadini virtuosi o irresponsabili, possiamo in ogni caso ricorrere ad alcuni rimedi, prontamente suggeriti dal sistema stesso.
Figura 1. Esempio di calcolo di impronta di carbonio con il Footprint calculator del WWF UK. I risultati includono tra l’altro una stima complessiva dell’impronta e un confronto con il valore medio per il Regno Unito. (https://footprint.wwf.org.uk/)
Le miglia alimentari
Le “miglia alimentari” (in inglese, “food miles”) sono la distanza per cui il cibo viene trasportato prima del consumo finale. Agli alimenti coltivati o raccolti in Paesi lontani da quello in cui siano consumati sono associate migliaia di miglia alimentari, mentre agli alimenti coltivati in prossimità dei mercati di consumo sono associate poche miglia alimentari. Le miglia servono per calcolare le emissioni di CO2e associate al trasporto di una certa quantità di cibo. Secondo la logica delle miglia alimentari, se consumiamo cibo che arriva da lontano, contribuiamo alla produzione di emissioni “nascoste” in questo cibo, prodotte per lo più in fase di trasporto.
Quello delle miglia alimentari è un concetto intuitivo, ma può condurre a valutazioni inaccurate. Infatti, se si analizzano con più attenzione le componenti delle emissioni di CO2e associate alla produzione e al consumo alimentare, si riconosce per lo più un peso minimale del trasporto nella produzione di CO2e associata al consumo di cibo poiché la produzione è abitualmente responsabile della maggior parte delle emissioni associate al cibo, mentre il trasporto conta per circa l’11% del totale, di cui solo il 4% si riferisce al trasporto dal produttore al rivenditore, come si vede in figura. Per chiarezza, questo 4% è la frazione su cui si basano il movimento del “Km Zero” e altri approcci analoghi.
Figura 2. Valori percentuali medi delle emissioni di carbonio associate al consumo di cibo, per fase del ciclo di vita (produzione, distribuzione, trasporto intermedio e finale) (Weber & Matthews, 2008).
In sostanza, le miglia alimentari da sole non spiegano un problema complesso. In generale è più critico in termini di emissioni di CO2e ciò che si mangia e quanto se ne spreca rispetto a dove gli alimenti alla base dei nostri pasti siano stati prodotti. Ad esempio, un prodotto locale cresciuto in una serra riscaldata o conservato per mesi in una cella frigorifera potrebbe nascondere molte più emissioni di CO2e dello stesso prodotto importato in un container con un viaggio intercontinentale.
Prendiamo il caso dei pomodori svedesi, che fu analizzato anni fa in uno studio. I costi di produzione sono quelli che fanno la differenza tra un pomodoro coltivato in Svezia e uno importato dalla Spagna. La coltivazione in serra, necessaria in un contesto nordeuropeo e sostanzialmente inutile in Spagna, è energivora e quindi genera una quantità considerevole di emissioni, come mostrato in figura.
Figura 3. Impronta ecologica di un kg di pomodori prodotti in diversi Paesi europei: valori assoluti in kg di CO2e e contributo al valore complessivo delle diverse fasi del ciclo di vita del pomodoro (fertilizzazione, produzione, conservazione e trasporto) (Carlsson, 1998).
Talvolta, si possono ottenere risultati meno scoraggianti utilizzando il calore di altri impianti (come centrali elettriche, sistemi di teleriscaldamento o di co-generazione) per scaldare le serre e adeguate tecniche di irrigazione, tuttavia di norma mangiare frutta e verdura di stagione tende a limitare significativamente le emissioni connesse alle nostre scelte di consumo. Infatti, il consumo stagionale riduce automaticamente sia le spese di refrigerazione sia quelle di trasporto e le emissioni di carbonio associate.
Figura 4. Confronto tra le impronte di carbonio associate a diverse modalità di trasporto di derrate alimentari, per analoghe quantità di alimenti (trasporto marittimo, ferroviario, stradale, aereo).
Un caveat opportuno: non intendiamo sostenere che le miglia alimentari siano una misura completamente fuorviante, però devono essere sempre lette in un contesto ben definito. Per esempio, il trasporto aereo di derrate alimentari pesa in termini di CO2e: i dati indicano che trasportare cibo in aereo può generare emissioni di carbonio fino a 100 volte superiori al caso del trasporto marittimo. Bisogna inoltre riconoscere che alcuni alimenti non sarebbero disponibili su molti mercati in assenza di spedizioni internazionali e in alcuni casi il valore dei prodotti rende il peso del CO2e per unità monetaria decisamente minore (si pensi, nel contesto alimentare, al pesce surgelato).
Figura 5. Emissioni di carbonio in kg di CO2e associate al trasporto di una tonnellata di merce per un km nel caso di diverse modalità di trasporto: marittimo, ferroviario, stradale, aereo (con alcune ulteriori caratterizzazioni per modalità). (DEFRA)
Per concludere, una valutazione seria delle emissioni deve necessariamente riguardare tutto il ciclo di vita di un prodotto e non limitarsi ad alcune parti della sua storia. Occorre inoltre capire con precisione in quali fasi del ciclo di vita di un prodotto o di un servizio si concentrino le emissioni, per evitare di fare “molto rumore per nulla” – o quasi, concentrando i propri sforzi di riduzione delle emissioni o di altri impatti su aspetti marginali del processo produttivo, quando si potrebbe ottenere un risultato decisamente più interessante considerando le fasi veramente responsabili degli impatti che si vogliano fronteggiare.
Luca Cetara
Professore, Ricercatore, Eurac Research e docente di Economia Ambientale e Sostenibilità presso European School of Economics