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7 Ottobre 2024
Lavoro e Previdenza

Eppure (qualcosa) si muove

Ho letto un recente messaggio emanato dall’INPS per illustrare l’esonero contributivo in favore dei datori di lavoro del settore privato in possesso della certificazione della parità di genere.

La certificazione attesta “le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità” e consente di accedere a interventi finalizzati alla promozione della parità salariale di genere e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e a diverse agevolazioni in caso di partecipazioni a gare ed appalti pubblici nonché, appunto, all’esonero contributivo.

Stiamo parlando del gender gap retributivo e pensionistico (le differenze di reddito tra i generi, si direbbe in italiano) per il quale l’articolo 157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) ha stabilito che “Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”.

Il legislatore ha recepito l’indirizzo europeo e previsto, per i datori di lavoro in possesso della certificazione della parità di genere, un esonero contributivo determinato in misura non superiore all’1% calcolato sulla contribuzione previdenziale complessivamente dovuta dal datore di lavoro nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda, nel limite di 50 milioni di euro annui complessivi.

Qualcosa, in effetti, si sta muovendo. Dalla legge n. 53/2000 (“Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”), volta a promuovere un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, al D. Lgs. n. 198/2006, c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, al D.Lgs. n. 105/2022, in vigore dal 13 agosto 2022, che, nel dare attuazione alla Direttiva UE 2019/1158, cerca di armonizzare il lavoro e la vita privata in un’ottica di parità di genere e di equa ripartizione dei carichi familiari ed estende un minimo di tutela della genitorialità anche per i lavoratori e lavoratrici autonome.

Niente di particolarmente sconvolgente, ma la lettura del messaggio mi ha risvegliato dei ricordi. Ricordi positivi di quando, tanti anni orsono, m’imbattei per la prima volta in un’ottica diversa da quella a cui ero abituato per affrontare un problema. Nel caso concreto si trattava della messa a terra delle hostess incinte da parte della nostra compagnia aerea (Alitalia). La Corte di Giustizia dell’UE definì il divieto di volare discriminatorio perché perdevano le varie indennità legate al volo. Le hostess non dovevano ma potevano restare a terra solo se lo volevano loro. Con tanti saluti alla protezione della figura femminile, intesa come madre, d’italica memoria. Passato lo sbandamento iniziale, cominciai a vedere le cose in un’ottica diversa.

Lo stesso ragionamento fu ripetuto a proposito dell’età di pensionamento, differente per uomini e donne. All’Europa non importava niente dell’età anagrafica in quanto tale, importava che cinque anni di lavoro in meno producessero una pensione d’importo inferiore. Con tanti saluti al welfare familiare tanto in auge in Italia (part time di servizio, assistenza agli anziani, ai nipoti, ecc.).

In Europa sono pragmatici e riducono i ragionamenti a ciò che si sostanzia in cose materiali (soldi), per me, tuttavia, è riduttivo ridurre la differenza di genere (retributivo e pensionistico) ad una mera questione economica: per migliorare la condizione lavorativa femminile, anche in ambito pensionistico, e per superare le disparità tra i generi, occorre, oltre che misure e servizi, anche rimuovere radici storiche e culturali. Non so quanti ricordino la figura di Marisa Bellisario (la prima top, top, top manager donna) che rinunciò ai figli (così si diceva) per diventare la prima manager italiana e simbolo della parità fra uomo e donna. Secondo me avremo raggiunto la parità quando questo non dovrà più succedere.

In Italia, oltre alla maggiore difficoltà del genere femminile nel conciliare lavoro e vita familiare, ragioni storiche e culturali incidono pesantemente nella differenza di genere. All’inizio dell’attività lavorativa, spesso, le donne scelgono lavori più “adatti”, cioè più compatibili con la gestione delle responsabilità familiari (vicinanza a casa, orari di routine, possibilità di part time o di interruzione del lavoro e assenza di trasferte). Come dire che sono sovrarappresentate nei settori relativamente a basso salario come l’assistenza, le vendite o l’istruzione e sottorappresentate nei settori dove le retribuzioni sono più alte.

Non è, quindi, una questione solo di soldi ma occorre assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, facilitare l’esercizio di un’attività professionale, evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.

La strada sarà lunga e difficile, proprio per ragioni storiche e culturali, e non può essere imposta ma percorsa insieme dai soggetti interessati all’uguaglianza. Noi siamo ancora all’età pensionabile più bassa (così dopo aver cresciuto i figli, le donne possono occuparsi dei nipoti e dei genitori ormai anziani).

Antonio Chiaraluce

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