Il blocco dei licenziamenti, in vigore dal 17 marzo 2020, verrà meno il 31 marzo ed anche se la proroga è un auspicio condiviso da molti, seppure con diverse motivazioni, il blocco è solo un palliativo che non risolve il problema. Non è, e non può essere un ammortizzatore sociale.
Il problema della tutela del lavoratore dipendente per la perdita dell’occupazione fu sentito sin dall’inizio della previdenza sociale: l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria nasce nell’anno 1919. Non ha avuto una grande importanza nel passato e, non a caso, era una delle contribuzioni c.d. “minori” (il contratto di lavoro “tipico” era quello a tempo pieno e indeterminato). Nonostante la crisi del 2008 avesse messo a nudo i limiti del nostro sistema di protezione nei confronti di eventi traumatici del lavoro e si sia iniziata una riforma del sistema, il pianeta “ammortizzatori sociali” presenta ancora quelli che possiamo chiamare eufemisticamente ampi margini di miglioramento.
La copertura degli ammortizzatori sociali, a differenza di quella pensionistica, non è universale. Nel lavoro dipendente i più colpiti dalle crisi, sono i lavoratori con contratti flessibili e stagionali mentre l’attuale tutela è strutturata nell’ottica di una tutela statica del posto di lavoro, privilegia il lavoratore a tempo pieno e indeterminato senza prevedere organicamente una gestione del rapporto di lavoro flessibile (periodi di occupazione alternati a periodi di disoccupazione). Ancora oggi non esiste nel bilancio dell’INPS una “Gestione ammortizzatori sociali” e, ancora, si utilizza lo strumento dei c.d. “ammortizzatori in deroga”, cioè la negazione della certezza del diritto, molto costosi, a carico della fiscalità generale e con ampio margine di discrezionalità.
Nel lavoro autonomo, ad eccezione dei lavoratori iscritti alla Gestione Separata che solo recentissimamente hanno una minima tutela contro eventi straordinari, non c’è una copertura e, in questa crisi, si è fatto ricorso alle indennità ed ai ristori, cioè agli “ammortizzatori in deroga”, giacché le indennità e i ristori altro non sono: un piccolo sostegno al reddito dato a pioggia senza possibilità di riscontro dell’efficacia e senza prospettive per il futuro.
È vero che uno sblocco totale sarebbe traumatico per tutti: il lavoratore preoccupato per il proprio futuro, l’imprenditore preoccupato e ferito nell’orgoglio, lo Stato che non sa dove prenderà i soldi (meno redditi, meno profitti, meno imposte, meno contributi, maggiori oneri per l’assistenza …), ma per quanto tempo il sistema Paese può sostenere lo spostamento più in là del problema facendo sopravvivere un “posto” senza che sia di lavoro?
Il blocco dei licenziamenti, nei fatti, ha ingessato il mercato del lavoro ma la tutela deve essere per il lavoratore non per il posto di lavoro. Spero bene che il posto venga o sia venuto meno perché non ha o non aveva più ragione di essere. Qual è un limite ragionevole, in un Paese sviluppato, per il riassorbimento del disoccupato nel mercato del lavoro? E per quelle forme di ammortizzatori sociali non legate al rientro in azienda qual è il tempo giusto? Si può prolungare fino alla pensione? Non si può avere il retropensiero che la retribuzione del rapporto di lavoro cessato si possa prolungare fittiziamente fino alla pensione, come è stato spesso fino ad oggi, prolungando gli ammortizzatori o anticipando il pensionamento, in modo alquanto discriminatorio. Il prolungarsi oltre ogni ragionevole limite di ammortizzatori alla fine diventa solo assistenza pubblica e le risorse, almeno nel breve periodo, non sembrano disponibili.
Come sostenere il reddito e l’occupabilità dei lavoratori nel presente e in prospettiva futura? Il lavoro è cambiato, e tanto, ed ha generato quella che io chiamo “mancata corrispondenza fra lavoro e competenze”, “mismatch” lo chiamerebbe chi ha dimenticato la parola chiusura (lockdown, per intenderci). Di sicuro una via d’uscita è impegnarsi: formazione (che deve essere fatta da scuola e aziende), impegno (che deve partire dal basso, dai cittadini, bisogna studiare, aggiornarsi, riqualificarsi) e dallo Stato (che deve agevolare le riconversioni, creare le infrastrutture). Mi è piaciuta la frase di Dario Odifreddi che ho letto giorni fa in un quotidiano: preparare una generazione di lavoratori, non di sussidiati. Sono d’accordo!
Antonio Chiaraluce