Il solito dibattito annuale sulle pensioni sta sulle montagne russe, vuoi vedere che avevano ragione i deputati e senatori (alla Camera 402, al Senato 298, compresa la nostra attuale Presidente del Consiglio) che votarono per l’approvazione della L. n. 214/2011, che convertì con modificazioni il decreto legge n. 201/2011, cosiddetto “Salva Italia”, all’interno del quale, fra gli altri, c’è l’art. 24 (Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici)? Sì, decreto legge convertito in legge, per favore non chiamiamola legge Fornero, che c’entra la prof? Non era neanche in Parlamento. Lei non si è mai lamentata, a quanto ne so. Possiamo parlare di indebita appropriazione di improperi?
Per ravvivare il dibattito e per dare, eventualmente, qualche spunto mi sono fatto un giro alla ricerca di altre operazioni pensate sull’onda di un’emozione (da politici che vivono fuori dal mondo?).
Un obiettivo facile: le varie “quote pensionistiche”, le “salvaguardie” (se ben ricordo sono arrivate a nove), le leggi speciali per determinate categorie di lavoratori. L’anno scorso sì, quest’anno no.
Per non parlare di quanti soldi sono costate ai contribuenti (e solo il 14% degli italiani paga quasi i due terzi delle tasse).
Sono state poco meno di 380.000 le domande di “quota 100” accolte nel triennio 2019-2021, nel 2022 non più di 17.000. Le cifre sono indicative, non è stata una ricerca scientifica ma emozionale. Che implicazioni hanno queste opzioni per i conti pubblici? Circa 30 miliardi per “Quota 100”, oltre 1,6 miliardi per “Quota 102”. L’importo lordo medio annuo dell’assegno è di 25.663 euro. Quindi la retribuzione non era malvagia, e allora a che serve investire soldi pubblici per migliorare la vita a chi non ne ha bisogno? Certo, meglio vivere con una pensione più alta che con una più bassa.
E poi dicono che chi rovina il sistema sono quelli che sono andati in pensione negli anni passati con trattamenti più favorevoli (senza alcuna modifica legislativa ad ogni tornata elettorale). I 40 anni di contributi c’erano già quando ho cominciato a lavorare (1971), e sono andato in pensione con 40 anni e un mese di contribuzione interamente versata (come si diceva allora). Si possono modificare (lungi da me pensare che i requisiti siano fissi nel tempo) in relazione all’andamento socio economico del Paese e del pianeta ma non si possono inventare (a debito) come fosse cronaca elettorale. Le pensioni necessitano di concretezza, numeri, prospettive.
Tutto questo ha creato negli anni discriminazioni (età, sesso, persino figli), iniquità (l’anno precedente calcolate in un modo, l’anno successivo in un altro), e quanto altro di peggio si possa pensare. Certo, per chi è nato il 7 dicembre 1956, il mio amico E., (sì li conosco tutti io), è stata una manna: chiusa l’impresa, 38 anni di contributi, sarà stato il primo ad andare in pensione con quota 100.
Ed hanno, anche avuto il coraggio di affermare che con “la riforma del sistema previdenziale (art. 24, Decreto Legge n. 201/2011 ‘Salva-Italia’ è stato portato a compimento il quadro elaborato dalla legge di riforma pensionistica del 1995, che ha ricevuto così la sua piena attuazione” (Fonte: Ministero del lavoro, lo hanno scritto nel 2016 a proposito di “Lavoratori Salvaguardati”). Ed erano passati solo cinque anni, pensate a tutto quello che è successo dopo.
La cosa che più mi infastidisce, poi, è la percentuale del sesso dei pensionati (70% uomini e 30% donne). Devo spiegare perché o basta dire “ulteriore discriminazione sessuale”, nella retribuzione del lavoro e della pensione che ne deriva?
Non ho niente contro l’immissione nella Previdenza di soldi derivanti dalla fiscalità generale (lo si deve fare in modo chiaro sia nello scopo che nei conti), ma gli interventi dello Stato sulle pensioni devono trovare giustificazione nella necessità di prevenire situazioni di bisogno e di emarginazione (articolo 36 della Costituzione italiana: vecchiaia dignitosa) e non nelle necessità elettorali.
Occorre una netta distinzione tra garantire una tutela adeguata (compito dello Stato) anche a coloro i quali, in base ai contributi versati, non abbiano maturato il diritto ad una pensione dignitosa (costituzionalmente protetta) con trasferimenti di fondi e fornire assistenza sociale (oltretutto, quando parliamo di pensioni anticipate, a persone che non ne avrebbero bisogno). Non è il sistema previdenziale che deve farsi carico di alleviare situazioni di disagio. Tradotto: chi pensa che il trattamento minimo di pensione sia Assistenza sbaglia, chi pensa che “Quota XXX” sia Previdenza, anche.
Questa indecisione nel dibattito di fine anno e preelettorale (il prossimo anno ci sono le elezioni europee) che possiamo tradurre in “oggi inasprisco, domani ci ripenso”, sta per segnare la fine di un’era?
Antonio Chiaraluce