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15 Dicembre 2024
Lavoro e Previdenza

Perchè così poche ragazze nei percorsi tecnico-professionali ad indirizzo STEM?

Una prospettiva storica per capire il presente e guardare il futuro

Le prospettive occupazionali dei prossimi decenni evidenziano come il processo di digitalizzazione e la green economy determineranno sempre di più un fabbisogno di profili e competenze di area STEM. Si tratta tuttavia di ambiti professionali e di studio in cui permane ancora oggi una significativa sottorappresentazione femminile.

A livello italiano si sono moltiplicate in questi anni numerose iniziative volte ad orientare le bambine e le ragazze verso le materie scientifiche e tecnologiche e sia il PNRR, siala Strategia nazionale per la parità di genere hanno richiamato la necessità di ridurre questo gender gap specifico. Le cui conseguenze infatti potrebbero essere particolarmente rilevanti nel medio-lungo periodo: le previsioni occupazionali dell’Ue indicano infatti un progressivo aumento della domanda di profili e competenze STEM (connessa alla digitalizzazione e alla green economy) tra laureati e diplomati, ma considerando i dati recenti dell’osservatorio sui diplomati di Almalaurea (2020) la presenza di ragazze è maggiore nei licei (62,0%) e negli istituti professionali (56,2%), mentre nei percorsi tecnici prevalgono i maschi (62,3%), in particolare negli indirizzi professionale per l’industria e l’artigianato e tecnico-tecnologico.
Come affrontare dunque in modo efficace e con una prospettiva di lungo periodo questa segregazione formativa? La complessità del problema è stata messa in luce ormai da numerosi studi condotti in Ue e nel nostro Paese, ed è stata affrontata con iniziative e progettualità (es. “Free To Choose”, buona prassi UE) che hanno evidenziato il ruolo giocato dalla dimensione culturale e sociale nella scelta dei percorsi di studio. Lo stereotipo di genere è ancora molto “diffuso” e “profondo”, con la conseguenza che sono ancora poche le giovani che si iscrivono ad istituti superiori ad indirizzo tecnico-industriale (in particolare elettronica, informatica, meccanica, meccatronica, energia).
Un contributo particolarmente interessante per capire quanto siano “profonde” le radici della segregazione formativa è dato dal recentissimo volume “Genere, lavoro e formazione professionale nell’Italia contemporanea”, curato da Eloisa Betti e Carlo De Maria (ed. Bononia University Press). Un lavoro collettaneo che raccoglie e rielabora i contributi di studiosi e studiose di Storia contemporanea e affronta, con un’ottica di genere, la stretta connessione tra lavoro e istruzione tecnico-professionale che ha caratterizzato il contesto italiano dall’Unità agli Anni Duemila. Nella prima parte del volume (“Origini e sviluppi dell’istruzione tecnico-professionale femminile tra contesti locali e orizzonte nazionale”) viene proposta un’analisi dedicata ai primi decenni del Novecento, che consente di capire quale influenza abbia avuto il fattore economico (lo sviluppo industriale), politico (la prima guerra mondiale) e l’assetto del sistema scolastico nazionale (Legge Casati) nell’incremento della domanda di profili tecnico-professionali maschili e femminili e nella capacità di risposta del sistema dell’istruzione nazionale e locale. In proposito, l’analisi di Carlo De Maria (“Presenze e assenze: donne e istruzione tecnico-professionale dall’Unità alla seconda metà del Novecento”) riporta un dato significativo di questo sviluppo: nel 1921 l’incidenza della componente femminile fu del 43,5% per i ginnasi, del 21,3% per i licei, per il 59,2% nelle scuole tecniche e del 26,9% negli istituti tecnici.
Per quanto fossero già presenti indirizzi e contenuti didattici diversi per maschi e femmine, come ricostruito da Chiara Martinelli (“Professionale per chi? Significati in mutamento dell’istruzione professionale tra età liberale e fascismo”), fu a partire dalla Riforma Gentile (1923) che avvenne un processo di “deprofessionalizzazione dell’istruzione femminile espressa da scelte quali l’istituzione del liceo femminile, e con un progressivo spostamento dell’istruzione delle ragazze verso la sfera dell’educazione della famiglia o del governo della casa. Secondo la storica, per quanto le scuole professionali femminili di Otto e Novecento fossero pensate “più per formare future mogli e madri che lavoratrici di fabbriche e uffici”, furono le riforme del 1923 e del 1931 (Belluzzo) a consolidare la segregazione di genere nei percorsi tecnico-professionali. Altresì, la creazione di scuole di avviamento professionale (indirizzate, secondo la visione dell’epoca, prevalentemente ai “ceti meno abbienti”) differenziate per maschi e femmine, per contenuti e sbocchi formativi e professionali, continuavano ad aver come finalità per le ragazze quella di formare “le future buone massaie e le madri di famiglia”.
Nella seconda parte del volume (“Genere, formazione e lavoro nel secondo Novecento tra dimensione italiana e internazionale”) l’analisi prende avvio dagli Anni Cinquanta, periodo in cui il tema dell’istruzione tecnico-professionale femminile venne affrontato in relazione alla necessità di migliorare il tasso di scolarizzazione delle donne e fornire loro una preparazione volta all’inserimento occupazionale, risentendo altresì del dibattito coevo (europeo e italiano) sulla parità salariale. Nel corso degli Anni Sessanta (ricostruito da Eloisa Betti in “Lavoro e istruzione tecnico-professionale femminile nel trentennio glorioso: dibattiti, mobilitazioni, protagonisti”), grazie anche al contributo dei movimenti femminili, si evidenziò la necessità non solo di un aumento della scolarizzazione delle donne, ma anche di un’istruzione di tipo nuovo e non più stereotipata in base al genere, per consentire alle giovani di accedere a lavori stabili e qualificati e potere così contribuire pienamente allo sviluppo economico e industriale italiano. Successivi cambiamenti avvennero a partire dagli Anni Settanta, sia perché la formazione professionale divenne competenza delle Regioni, sia per il crescente ruolo della Comunità europea e degli organismi internazionali (ILO).
Il saggio di Alessandra Cantagalli e Stefano Veratti (“Tra istruzione e professione: le prime generazioni di donne periti industriali”) propone una lettura dell’evoluzione della presenza femminile negli istituti tecnici industriali dagli Anni Cinquanta agli Anni Novanta del Novecento, evidenziando come la quota di ragazze sia rimasta sempre minoritaria, indicando come persistano forme di segregazione educativa che si accompagnano alla difficoltà di accedere e rimanere in un mercato del lavoro non ancora paritario. In particolare, se nell’anno scolastico 1945/46 le ragazze iscritte rappresentavano lo 0,2%, nel 1975/76 erano il 3,7% e nel 1995/96 salgono al 9,0%. Considerando gli indirizzi, appare interessante osservare come nella prima metà degli Anni Ottanta l’informatica presentasse un’elevata presenza di ragazze, che tuttavia a partire dal 1985 andò progressivamente riducendosi. L’indirizzo meccanico, invece, è quello che presenta sempre (e tutt’ora) la minore incidenza femminile.
Il volume propone inoltre interessanti approfondimenti su alcune esperienze condotte a Milano (“Cento anni di istruzione professionale femminile” di Fiorella Imprenti), a Bologna (“Il Comune di Bologna e l’istruzione tecnica: l’Aldini Valeriani e l’Istituto Tecnico Industriale Femminile”) e Pavia (“Formare per produrre, formare per vendere. La Necchi di Pavia e l’istruzione professionale femminile”). Un capitolo presenta inoltre il ruolo della cooperazione per il superamento degli stereotipi di genere nell’inserimento lavorativo in ambiti settoriali e mansioni tecniche considerate “maschili” viene proposta da Tito Menzani (Istruzione tecnica e impresa cooperativa”) analizzando l’esperienza di Legacoop in Emilia Romagna negli Anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Giorgio Tassinari analizza nel suo contributo “Il lavoro femminile in Emilia-Romagna”, mentre due contributi aprono la prospettiva a livello internazionale: Mattia Granata con “Istruzione e sviluppo. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e l’affermazione di un mainstream” e Liliosa Azara con il contributo dedicato a “Genere, istruzione e formazione nell’Unesco: diritti, politiche, prospettive”.
Il volume rappresenta dunque un’opportunità interessante per ripercorrere il percorso lungo, faticoso e non ancora completato verso la parità di genere. Uno sguardo al passato che tuttavia, in diversi passaggi, appare estremamente attuale.

Chiara Cristini

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