14 Maggio 2025
Perché un Fondo Pensione?
Lavoro e Previdenza Primo Piano

Perché un Fondo Pensione?

Un recentissimo studio (“The European House Ambrosetti” in collaborazione con “Previdenza Italia” presentato il 5 Aprile scorso) ha stimato che, a causa delle dinamiche economiche e demografiche che interesseranno il nostro Paese, nei prossimi anni il “tasso di sostituzione” (che attualmente si attesta intorno all’80%) è destinato a scendere progressivamente di ben 12 punti percentuali, fino ad attestarsi a poco meno del 68% intorno al 2040.

Altre stime, invece, indicano che, già oggi, il tasso di sostituzione, per i lavoratori dipendenti, si attesta tra il 64% e il 75,5% (in ragione del numero dei contributi versati al momento del pensionamento), ma concordano nel prevederne comunque una netta diminuzione intorno al 2040 (68,5%).

Per “tasso di sostituzione” si intende il rapporto tra l’ultima retribuzione percepita dal lavoratore in costanza di attività e l’importo del primo rateo di pensione obbligatoria.

Se prendiamo per buone le stime del rapporto, rispetto ad un ultimo stipendio mensile di 1.700 euro netti, un pensionato oggi percepisce (mediamente) 1.360 euro mensili come primo rateo di pensione; se le stime troveranno conferma, nel 2040 ne percepirà, a parità di ultima retribuzione, solo 1.156.

Si può ragionevolmente prevedere un’inversione di questa tendenza ed una crescita dell’assegno pensionistico?

Difficile, molto difficile. Già in altre occasioni (vedi “L’Esodo” n. 48, novembre 2024), abbiamo avuto modo di verificare come l’andamento del sistema previdenziale sia condizionato da variabili di tipo economico (il livello di occupazione e l’andamento del PIL) e demografico (il tasso di natalità, il tasso di invecchiamento della popolazione, il rapporto tra popolazione attiva e pensionati) che influiscono sulla dinamica pensionistica e determinano se il sistema è in grado di sostenersi o va fuori equilibrio.

E, se il sistema va fuori equilibrio, non è ipotizzabile prevedere un miglioramento dei trattamenti pensionistici, ma, anzi, è ipotizzabile l’adozione, come avvenuto in passato, di misure che mettano mano alle regole del sistema pensionistico, agendo (al ribasso) sull’importo delle pensioni, aumentando dove possibile la contribuzione ed innalzando l’età pensionabile legata alla dinamica dell’aspettativa di vita.

Gli indicatori demografici ISTAT, aggiornati al 2024 e pubblicati a fine marzo 2025, rilevano un’ulteriore polarizzazione di tali indici e fotografano quello che alcuni hanno definito “inverno demografico”.

Tra gli altri: popolazione in calo rispetto al 2023, un tasso di fecondità ai minimi storici (1,18 figli per donna) ed una speranza di vita di 83,4 anni alla nascita (+ 5 mesi rispetto al 2023; nello specifico, la speranza di vita è pari a 81,4 anni per gli uomini e 85,5 anni per le donne), nonché una progressiva crescita della popolazione anziana e la costante riduzione di quella giovanile e, quindi, la riduzione della popolazione in età lavorativa (- 4,3 milioni nel 2040; entro il 2045, una persona su tre sarà over 65; nel 2050 potremo avere un rapporto di 1 a 1 tra lavoratori e pensionati).

Quindi: aumenta il numero dei pensionati e diminuisce il numero dei lavoratori attivi che devono ‘pagare’ quelle pensioni (nella sostanza, noi abbiamo ancora oggi un sistema a ‘ripartizione’ in cui i contributi degli attuali lavoratori finanziano le pensioni correnti) e, aumentando l’età media, le pensioni dovranno essere pagate per un maggior numero di anni.

Già con le attuali regole, le uscite per pensioni continueranno a crescere, toccando il 15,7% del PIL nel 2030, fino al picco del 2040: 17,1%.

Anche dal punto di vista economico, le stime sulla crescita del PIL progressivamente riviste al ribasso, le perduranti situazioni di guerra in Ucraina e Medio Oriente, la crisi strutturale di importanti settori produttivi (es. automotive) e, da ultimo, la questione dei “dazi” commerciali, la debolezza politica ed economica dell’Europa ed un rapporto con gli USA tutto da riscrivere, costituiscono elementi di incertezza e di crisi che provocano forti oscillazioni dei mercati ed avranno conseguenze anche sull’economia reale.

Sicuramente, uno scenario che non induce, oggi, a poter ipotizzare un incremento delle pensioni.

L’ultima riforma strutturale del sistema previdenziale pubblico obbligatorio italiano è stata la Legge 335/1995 (c.d. “Riforma DINI”), di cui, poi, la tanto deprecata “Riforma Monti-Fornero” è stata solo un ulteriore affinamento per quanto riguarda il solo aspetto della previdenza obbligatoria.

La riforma Dini, proprio per tentare di riportare in equilibrio un sistema che era andato fuori controllo a causa del calcolo interamente “retributivo”, in cui non vi era correlazione tra contribuzione versata e prestazione percepita, nonché delle molte “regalìe” verificatesi negli anni ‘70/80, da un lato aveva introdotto il sistema di calcolo “contributivo” delle pensioni (in cui l’importo della pensione è dato dalla “trasformazione” del montante dei contributi complessivamente versati nel corso della vita lavorativa) ed aveva avviato l’armonizzazione dei molti anacronistici privilegi previdenziali precedentemente esistenti per specifiche categorie (alcuni dei quali persistono ancora oggi; parafrasando Orwell: in questo Paese c’è sempre qualcuno più uguale degli altri).

Di contro, tuttavia, per bilanciare l’impatto che il nuovo sistema di calcolo delle pensioni avrebbe avuto sui futuri pensionati (quelli, in particolare, che sarebbero entrati nel modo del lavoro dopo il 31/12/1995), aveva introdotto il sistema dei “3 pilastri”, in cui, accanto alla previdenza obbligatoria, (c.d. ‘primo pilastro’) avrebbero dovuto svilupparsi anche quella “complementare” (cioè l’adesione a fondi pensione collettivi – c.d. ‘secondo pilastro’) e quella “integrativa”, (cioè l’adesione a forme di previdenza individuali – c.d. ‘terzo pilastro’) garantendo così ai lavoratori interessati un trattamento ‘complessivo’ in grado di coprire le loro esigenze di vita.

Insomma: l’idea alla base di questa riforma era che la nostra futura pensione non dovrà più essere costituita dal solo ‘assegno’ pagato dall’INPS, ma sarà l’insieme di tutti quegli ‘strumenti’ che il lavoratore avrà messo in campo nel corso della propria vita attiva per garantirsi la copertura delle proprie esigenze di vita dopo che avrà cessato l’attività lavorativa: strumenti di previdenza complementare ed integrativa (fin qui la Riforma Dini), ma anche – andando oltre a quello che aveva previsto quella riforma – strumenti assicurativi specifici, individuali o collettivi, strumenti di tipo finanziario, fondiario, sanitario.

Purtroppo, fino ad oggi questa riforma risulta largamente incompiuta: ci si è preoccupati di affrontare e sviscerare, ovviamente, tutte le implicazioni della parte relativa alla previdenza obbligatoria, trascurando in larga parte le altre parti della riforma; in questo modo, si è tolto ai pensionati (sistema contributivo, anziché retributivo) senza fornire loro adeguati strumenti ‘compensativi’ per integrare la pensione obbligatoria.

E, tuttavia, è quella la logica con cui dobbiamo approcciarci, intanto, alla previdenza complementare, strumento che può permettere di colmare parte della differenza tra ultimo reddito lavorativo e pensione obbligatoria, nella consapevolezza che, sempre meno, il solo sistema pubblico sarà in grado di garantire pensioni adeguate.

Alla fine del 2024, su una platea di oltre 25 milioni di soli lavoratori dipendenti, i lavoratori iscritti complessivamente ai Fondi pensione (Fondi negoziali, Fondi aperti, Fondi preesistenti, PIP) risultavano circa dieci milioni e solo un quarto di questi ha concretamente effettuato versamenti nell’ultimo anno.

Ad oggi, infatti, l’adesione a un fondo di previdenza complementare è del tutto volontario e non obbligatorio.
Proprio in questi giorni – dopo che, a fine 2024, il Governo aveva ventilato un nuovo semestre di silenzio-assenso per il conferimento del TFR ai Fondi Pensione – per incrementare il numero di iscritti ha ripreso forza, da parte di alcuni esponenti della maggioranza, la proposta di rendere obbligatoria l’adesione ai Fondi Pensione per i giovani, proprio al fine di supportare le loro pensioni e dare equilibrio al futuro sistema pensionistico.

Ma conviene davvero aderire ad un Fondo Pensione?

Un aspetto particolarmente attrattivo dei Fondi è dato dal trattamento fiscale, estremamente vantaggioso sia in fase di contribuzione (deducibilità dal reddito imponibile fino ad euro 5.164,57 annui), sia per i rendimenti finanziari (20%, anziché il 26%), sia in fase di liquidazione delle prestazioni, alle quali viene applicata una tassazione massima del 15% che può scendere fino al 9% in ragione dell’anzianità di iscrizione alla previdenza complementare (non necessariamente al Fondo che eroga la prestazione) senza aver mai riscattato la posizione.

Si pensi, ad esempio, a due lavoratori che, dopo 35 anni di lavoro, abbiano accumulato un TFR di 100.000 euro ciascuno. Quello dei due non iscritto ad alcun Fondo Pensione avrà lasciato il TFR in Azienda e subirà una tassazione del 23% (IRPEF euro 23.000); l’altro lavoratore, che si fosse iscritto ad un Fondo Pensione fin dall’ingresso nel mondo del lavoro (o prima), ed avesse interamente conferito il proprio TFR al Fondo, avrà una tassazione del 9% (euro 9.000), con un vantaggio fiscale di euro 14.000 rispetto al collega.

È bene sapere, però, che se si conferisce il TFR al Fondo, questa somma diventa un ‘normale’ ‘contributo’ che il Fondo investirà sul mercato finanziario e non godrà più delle tutele e delle rivalutazioni di legge di cui usufruisce, invece, il TFR lasciato in azienda.

Secondo gli analisti, il confronto tra Fondo e TFR va sempre fatto tenendo conto dell’orizzonte temporale e del contesto economico: “Il Trattamento di fine rapporto è legato all’inflazione, quindi in anni particolarmente anomali, come il biennio 2022-2023 può temporaneamente offrire rendimenti superiori. Ma è un effetto congiunturale. Su un arco temporale lungo, come quello di una carriera lavorativa, è difficile che l’inflazione resti così elevata, mentre i fondi pensione possono beneficiare della crescita dei mercati finanziari” (Andrea Palmas – Azimut).

E infatti se si guarda solo al 2024 i Fondi hanno fatto registrare un risultato migliore: +6% per i fondi negoziali, +6,5% per gli aperti, +9% per i PIP, contro una rivalutazione del TFR pari al 2,32%.
In caso di adesione ad un Fondo negoziale (previsto dal CCNL di riferimento), inoltre, il lavoratore ha la possibilità di attivare il contributo aggiuntivo da parte dell’azienda, che andrà ad incrementare il suo montante contributivo.

Ovviamente, l’adesione ad un Fondo presuppone la consapevolezza che si tratta di uno strumento finanziario di risparmio di tipo privatistico, seppure regolato dallo Stato (tutti i Fondi sono sottoposti alla vigilanza della COVIP).

È necessario valutare i vari comparti che ciascun Fondo prevede (di solito, i Fondi hanno un comparto più “aggressivo” e più rischioso; uno bilanciato ed uno maggiormente conservativo), scegliendo quello più adatto alla propria propensione al rischio ed all’orizzonte temporale fino al momento del pensionamento.
Inoltre, è bene essere consapevoli della durata dell’investimento, che – per produrre l’effetto sperato di colmare il gap economico tra retribuzione e pensione, mantenendo il precedente livello di qualità della vita quando si smette di lavorare – presuppone una costanza di versamento per molti anni.

Nell’ultimo periodo, anche a seguito delle sollecitazioni e degli ‘allarmi’ in materia, la consapevolezza dell’importanza del risparmio previdenziale sta fortunatamente crescendo, ma il numero di chi si attiva è ancora insoddisfacente. Soprattutto, deve passare il messaggio che queste scelte riguardano anche (soprattutto) i giovani: anticipare l’iscrizione significa poter diluire in maggior tempo il versamento del capitale necessario e usufruire di una fiscalità agevolata, che consente (essa stessa, da sola) notevoli risparmi.

Alla pensione è necessario prepararsi per tempo

Certo, poi tutto si lega: per poter aderire e – soprattutto – contribuire validamente ad un Fondo pensione, servono risorse economiche, stipendi adeguati, capacità di risparmio, garanzie e sicurezza nel futuro. Tutti aspetti su cui politica ed economia sono chiamati a fornire risposte concrete.

Luca Giustinelli

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