Avevo 19 anni quando il sistema passò dal calcolo contributivo al calcolo retributivo; 21 anni quando entrai nel mondo INPS; 42 anni quando iniziò la Riforma per la sostenibilità del sistema (Amato); 46 anni quando si ritornò al sistema contributivo con molti distinguo (Dini), poi l’apocalisse ……. Sacconi, Damiano, Maroni, Fornero … modifiche annuali al sistema come se non ci fosse un domani. Provvedimenti di anticipi pensionistici “in via sperimentale” approvati, in pratica, mortificando il ruolo del legislatore, da un solo ramo del Parlamento (l’Italia è pur sempre una Repubblica parlamentare). Fino ad oggi che ho 73 anni.
Continui aggiustamenti spacciati per flessibilità ma che, in realtà, hanno un unico scopo: ingraziarsi l’elettorato facendo più danni possibile, ricorrendo al debito pubblico e scostamenti di bilancio, caricando la spesa pensionistica di integrazioni assistenziali, facendo decontribuzioni e prepensionamenti (che diminuiscono le entrate contributive ed aumentano le uscite per prestazioni), mischiando Previdenza e Assistenza, creando iniquità e discriminazione (età, sesso, condizione lavorativa, status familiare) finendo per generare un diffuso senso di sfiducia nel sistema previdenziale.
Sì, perché la Previdenza incide nelle carni delle persone, ne condiziona la vita e i comportamenti personali e sociali. La cosa peggiore sono i guasti che si creano nel tessuto sociale: perché essere corretti e operosi se si può vivere tranquillamente contando sullo stato sociale o eludendo i propri doveri? Cose che, fra l’altro, coincidono. Scattano le difese e addio ai comportamenti corretti, aumentano evasori ed elusori e pagano solo quelli che lavorano onestamente e hanno il prelievo alla fonte. Ribadisco onestamente perché si può lavorare anche senza prelievo alla fonte (come le statistiche su elusione, evasione, lavoro nero, ecc. ci dicono). Perché versare per una vita tanti contributi (e pagare tante imposte e tasse) per avere una pensione alta (e pagare altrettante imposte e tasse) che poi viene tagliata perché d’oro? Fra l’altro d’oro: un’espressione odiosa contro chi ha dato tantissimo all’Ente di Previdenza e alle casse dello Stato.
Perché? Per creare nuovi pensionati poveri (meno contributi = meno importo di pensione; opzione per il contributivo = penalizzazioni) e impoverire le casse dell’Ente di Previdenza. Se l’aliquota è tarata per andare in pensione ad una determinata età, andare via prima significa debito (come indicato nelle leggi: “l’autorizzazione di spesa di cui al comma X dell’articolo Y della legge Z, è incrementata di X milioni di euro per l’anno Y, di XX milioni di euro per l’anno YY, di XXX milioni di euro per l’anno YYY, di XXXX milioni di euro per l’anno …”). E questi soldi non generano pensioni che non hanno un rapporto con i contributi versati? E la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico?
La legge di bilancio non è né il luogo né il tempo per la riforma del sistema di cui si vagheggia da anni, ma operare come si è operato con la legge di bilancio del 2023, dichiarando apertamente che si modula la perequazione annuale delle pensioni di un importo tutto sommato medio (2.500 euro lordi) per pagare gli aumenti delle pensioni più basse, significa accrescere lo squilibrio del sistema già inquinato da ricorrenti interventi palesemente redistributivi su pensioni già in essere, ormai anche medie. E non importa che la Corte Costituzionale già ritenne il “contributo di perequazione” illegittimo e il contributo di solidarietà sulle pensioni utilizzabile solo come misura “una tantum” e non come finanziamento strutturale. Le pensioni in senso stretto (quelle, cioè, finanziate da una contribuzione) non sono “stato sociale” (che deve essere finanziato dalla fiscalità generale). Se il buongiorno si vede dal mattino ……
Questo non comporta automaticamente che lo Stato non debba intervenire per prevenire situazioni di bisogno e di emarginazione ma che lo deve fare in modo chiaro sia nello scopo che nei conti e che, allo stesso tempo, il sistema previdenziale non debba farsi carico di alleviare situazioni di disagio in determinate categorie di lavoratori. Il sistema, così impostato, premia chi ha lavorato poco e versato pochi contributi e, quindi, anche zero o poche imposte, mettendolo a carico di una impoverita classe media (sempre più medio-bassa) che sostiene il peso maggiore delle imposte in Italia e considerata come torta da dividere (che diminuisce costantemente).
È importante tenere distinte, all’interno dello stato sociale, le funzioni redistributive, da quelle assicurative per garantire un futuro al sistema. Tutte le pensioni “previdenziali” sono state finanziate e liquidate a norma di legge (e se qualcuna non corrisponde a questi criteri è un reato). Bisogna riportare il sistema previdenziale alla sua funzione: assegnare ai contributi versati dai lavoratori la funzione che è loro propria, cioè quella di assicurare un evento futuro a chi quei contributi versa, lasciando alla fiscalità generale la funzione redistributiva.
Che fare? Questa l’ho già sentita. Il modo migliore sarebbe riformare il sistema.
Come? Dando attuazione ad un comma dimenticato (chissà perché?) della legge n. 88/1989 (Ristrutturazione dell’INPS e dell’INAIL), il numero 4 dell’articolo 1: “L’esercizio delle attività relative alla gestione di forme di previdenza integrativa deve essere effettuato dall’INPS sulla base di un bilancio annuale di previsione separato da quello afferente agli altri fondi amministrati.” Tradotto: tre pilastri, uno di base (obbligatorio, garanzia del minimo esistenziale), uno integrativo (obbligatorio, previdenza professionale, finanziamento e prestazioni in base all’attività del lavoratore per garantire l’adeguata continuazione del tenore di vita abituale) e uno complementare (volontario per i redditi relativamente elevati, previdenza privata fiscalmente agevolata).
Difficile? In Italia sì, 34 anni non sono bastati, ma basta arrivare a Chiasso e il sistema è quello descritto sopra.
Antonio Chiaraluce