La società cambia, a diverse velocità a seconda del Paese, ma il comune denominatore delle professioni emergenti sembra essere quello di produrre, spesso, una nuova categoria di lavoratori: i poveri. I cosiddetti “minijob” ormai esistono ovunque e pongono una questione sullo sfondo di straordinaria rilevanza sociale: essere indigenti pur lavorando sembra un ossimoro, eppure molti lavoratori percepiscono uno stipendio che li pone al di sotto della soglia di povertà. L’Italia, come spesso accade, arriva in ritardo rispetto agli altri Paesi Ue e la politica ora sta cercando di riallinearsi alla società reale. È così che torna l’accento sul salario minimo che, in base alla definizione dell’Organizzazione internazionale del lavoro, è “l’ammontare di retribuzione minima che per legge un lavoratore riceve per il lavoro prestato in un determinato arco di tempo e che non può essere in alcun modo ridotto da accordi collettivi o contratti privati”. Secondo gli ultimi dati, in Italia circa l’11,7% dei lavoratori dipendenti percepisce un salario inferiore ai minimi contrattuali. Nasce così la rincorsa italiana, tortuosa e non priva di ostacoli. Basti pensare che già il Jobs Act conteneva la previsione di un compenso minimo orario, ma non fu recepita dai decreti attuativi ed è rimasta lettera morta. Adesso, in Senato c’è un disegno di legge che porta la firma dell’ex ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo. Il testo valorizza i contratti collettivi sottoscritti dai soggetti più rappresentativi e fissa una soglia minima di 9 euro all’ora, coerentemente con i parametri indicati dalla Commissione europea. Non solo: c’è anche il PNRR, che mette sul tavolo parecchie risorse per la parità e l’adeguatezza salariale. Nell’ambito di quest’ultimo, il ministero del Lavoro ha individuato 11 obiettivi da finanziare, tra cui l’istituzione di un salario minimo orario da finanziare con i fondi del Piano.
Ma come funziona in Europa?
Nella maggior parte dei Paesi dell’Unione il salario minimo è stato introdotto da tempo. All’appello mancano solo Italia, Austria, Finlandia e Svezia, ma negli ultimi tre Paesi la battaglia sembra già vinta perché i salari sono cresciuti e quasi tutti i lavoratori operano con contratti collettivi. I lavoratori italiani, invece, sono i più sfortunati del vecchio continente e l’Ocse offre una fotografia precisa: dal 1990 al 2020, il salario medio nel nostro Paese è sceso del 2,9%, mentre nello stesso periodo in Germania e in Francia i salari sono aumentati del 30%. Numeri eloquenti che concorrono a delineare la drammaticità delle condizioni salariali in Italia. In Francia il salario minimo esiste dagli anni settanta e viene ricalcolato periodicamente per salvaguardare il potere d’acquisto dei lavoratori. In Germania il nuovo istituto è stato introdotto durante il terzo governo di Angela Merkel perché la contrattazione collettiva non riusciva più a coprire la galassia delle nuove forme di lavoro. I minijobs, appunto.
Il dibattito nel nostro Paese
La proposta di una soglia minima di retribuzione divide il mondo politico e sindacale del nostro Paese. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, si è detto favorevole sostenendo che l’introduzione della misura gioverebbe soprattutto a giovani e donne. Anche la Cgil è d’accordo, con Landini che accende il “semaforo verde” per scongiurare il rischio di tornare alla situazione precedente alla pandemia. Il segretario del Pd, Enrico Letta, ha dichiarato che è una battaglia da portare avanti e sulla stessa linea d’onda c’è anche l’ex premier pentastellato Giuseppe Conte. Critiche, invece, da una parte del centrodestra con Fratelli d’Italia e Forza Italia, così come anche Confindustria. L’associazione degli industriali ha fatto sapere che con il salario minimo potrebbe esserci un rischio di fuga delle aziende dalla contrattazione collettiva. Eppure, guardando all’esperienza di Francia e Germania, il salario minimo non ha condotto all’indebolimento sindacale e dei contratti nazionali. Con gli obiettivi del PNRR, però, in Italia il 2022 potrebbe essere davvero l’anno della svolta anche sul fronte del diritto -richiamato dal Pilastro Europeo dei diritti sociali- ad una retribuzione equa e sufficiente. E c’è da capire anche il “destino” legislativo che attende il disegno di legge a firma di Catalfo. Staremo a vedere se anche in Italia, seppur con i consueti ritardi, i lavoratori potranno contare su una forma di protezione sociale che, stando alle ultime ricerche, è in grado di rilanciare anche la competitività delle imprese.
Gian Paolo Venezia