Sventolare la bandiera del diritto al lavoro, ma ritrovarla intrisa del sangue di chi ha perso la vita proprio guadagnandosi il suo spazio di dignità: una tragedia senza fine, quella delle morti bianche in Italia, con una media di tre vittime al giorno. Secondo gli ultimi dati shock dell’Inail, entro il mese di luglio 2021 sono stati 677 i decessi sul lavoro, con una lieve flessione rispetto allo stesso periodo del 2020, ma l’emergenza resta. E c’è di più: dal rapporto dell’Istituto, aumentano i decessi tra i più giovani e quelli registrati nel Sud del Paese.
È proprio il Mezzogiorno, infatti, ad essere palcoscenico della performance peggiore e l’analisi territoriale non lascia spazio a dubbi: da 141 casi nello stesso periodo del 2020, si è passati a 192 decessi, mentre nel resto del Paese i numeri sono pressocché invariati o in leggera diminuzione. Potrebbe dirsi, perciò, che gli squilibri socioeconomici si ripercuotono anche sulla sicurezza dei lavoratori e il principio sembra valido e applicabile anche se si confrontano i decessi sul lavoro nei vari Stati dell’Unione Europea: a titolo esemplificativo e non esaustivo, è sufficiente considerare i 6 lavoratori ogni 100mila che perdono la vita ogni anno in Romania. Oltre al rapporto Inail, c’è quello dell’Osservatorio indipendente di Bologna, che ha recensito 864 decessi fino al 9 agosto, includendo nel totale anche le vittime sulle strade e in itinere, ovvero mentre andavano o tornavano da lavoro. Scorrendo l’elenco di questa “lista nera”, emerge subito che i settori più colpiti sono quello agricolo, l’edilizio e il manifatturiero e la casistica è quasi infinita: muratori caduti da impalcature, operai schiacciati da mezzi di lavoro o lastre di materiali pesantissimi, contadini finiti sotto un trattore, lavoratori folgorati da cavi di alta tensione.
Male, anzi malissimo per gli infortuni: sempre il censimento Inail ha fotografato un aumento dell’8,3% di denunce di infortunio sul lavoro entro lo scorso mese di luglio rispetto all’anno scorso. Insomma, un’emergenza che appare difficilissima da contenere e arginare tanto che anche l’Ue ha iniziato ad accendere i riflettori. A giugno, da Bruxelles hanno preso atto dell’esigenza di nuove regole e di una nuova strategia per garantire la sicurezza sul luogo di lavoro. “Zero vittime” è lo slogan -chiaramente ambizioso- usato dal commissario Ue per l’occupazione e i diritti sociali Nicolas Schmit, che ha illustrato il programma per ridurre e prevenire gli incidenti entro il 2027: limiti più stringenti per l’esposizione a sostanze tossiche, risorse per applicare misure di prevenzione nei luoghi di lavoro e miglioramento della raccolta e dell’analisi dei dati. Sono questi alcuni dei binari su cui l’Ue si sta muovendo, ma non basta se si considera che l’Italia è uno dei pochissimi Paesi ancora privi di una strategia nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro. Lo dicono i sindacati, che hanno stipulato un “Patto per la salute” proprio nel tentativo di far avvicinare l’Italia ai virtuosi Paesi del nord Europa, che hanno drasticamente ridotto il numero di incidenti e di vittime. Da noi, muoiono 2,6 persone a lavoro ogni centomila, mentre la media europea è di 2,2, con i Paesi Bassi che incassano una media virtuosa dello 0,7. È per questo che i Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto il patto che prevede corsi di formazione per i lavoratori e un punteggio per le aziende che si dimostrano più rispettose delle regole. Il governo, però, sembra che stia sulla strada giusta, dopo anni di promesse e annunci senza seguito. A scuotere l’attenzione -e richiamare il meglio della retorica di circostanza- sono stati due episodi in particolare in questa tragica estate: la morte di Laila el Harim, la lavoratrice quarantenne impiegata da poco più di un mese come capomacchina in un’azienda di scatole e confezioni per pasticceria vicino Modena, rimasta intrappolata in una fustellatrice; e Luana D’Orazio, morta tre mesi prima, a soli 22 anni, nella fabbrica tessile dove lavorava a Montemurlo (Prato). Solo due giorni fa, lo stillicidio delle morti bianche con tre persone decedute nel giro di poche ore. A Pietrasanta (Lucca) ha perso la vita un operaio di 54 anni nell’azienda dove lavorava, schiacciato da una lastra di marmo. La seconda vittima è un uomo di 73 anni, dopo una caduta nel vuoto nel cortile di pertinenza di un’azienda agricola vicino Arezzo. Stava lavorando, invece, nel cantiere della metropolitana di Napoli il terzo uomo deceduto lo stesso giorno: aveva 59 anni. Le cronache, ormai, si sprecano e la drammatica lista cresce ogni giorno in attesa di un netto cambio di rotta ed il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha ripescato una proposta -rimasta inattuata- del suo predecessore Luigi Di Maio: un concorso pubblico per aumentare il numero degli ispettori del lavoro. Il concorso, stavolta, si farà e il bando è stato già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale per reclutare 1.514 unità di cui 822 sono destinate all’Ispettorato nazionale del lavoro (ma concretamente, di loro, solo 691 saranno operative sul campo). Il ministro ha anche pensato ad una specie di curriculum delle imprese, dove inserire il numero degli incidenti e le misure di prevenzione per evitarli.
Uno sforzo che comunque non convince i sindacati: le unità reclutate col concorso, dicono, non sono sufficienti per garantire un sistema di controlli accurato e, quindi, bisognerebbe pescare anche dal personale dell’Inps, delle Asl e dell’Inail. Se entrare nelle aziende per verificare il rispetto delle regole resta un punto fondamentale, centrale per assicurare la sicurezza del lavoratore, sullo sfondo c’è, probabilmente, anche la necessità di rivedere il quadro normativo.
In Italia, infatti, il riferimento principale è il d.lgs 81/2008, ovvero il Testo Unico per la Sicurezza del Lavoro. Il TU ha avuto il merito di riordinare e coordinare tutte le disposizioni in materia di salute e sicurezza del lavoratore, ma a quanto pare oggi non basta più. Una delle questioni più innovative all’epoca della sua emanazione era senza dubbio l’inserimento di una serie di azioni obbligatorie e preventive, come la valutazione dei rischi in azienda e l’adozione di una serie di interventi per migliorare le condizioni di sicurezza.
Ma oggi i numeri raccontano un’altra storia e impongono un impegno legislativo e normativo più pregnante, in grado di frenare una vera e propria emorragia, che sia il frutto di un processo di condivisione tra datori di lavoro e rappresentanze sindacali. In quest’ottica, si potrebbe recuperare un terreno fertile di dialogo e confronto anche all’interno degli Enti bilaterali, che sono il “luogo d’incontro” privilegiato per la regolazione del mercato del lavoro e che peraltro già si occupano di sviluppare azioni inerenti alla salute del dipendente e la sicurezza sul lavoro. Nell’ambito di un processo di riforma della normativa vigente, coinvolgere gli Enti bilaterali si tradurrebbe nel superamento della logica antagonista che sovrasta le relazioni sindacali.
Del resto, si potrebbe semplicemente copiare il modello utilizzato dai Paesi che hanno raggiunto risultati importanti su questo fronte. Nei Paesi Bassi sindacati e associazioni di categoria sottoscrivono accordi con soluzioni condivise valide per tutti. La Svezia, invece, ha creato una propria agenzia per coordinare le attività in materia tra governo, aziende e sindacati, che monitora le misure adottate dagli altri Paesi, studia gli effetti delle riforme e fa ricerche nei luoghi di lavoro, oltre ad una serie di iniziative per la promozione della sicurezza. Anche in Germania c’è una grande attenzione: governo e stati federali mettono a punto una strategia comune, di concerto con le assicurazioni. L’Italia è un po’ in ritardo, anche se qualcosa inizia a muoversi per “migliorare una situazione inaccettabile”, come ha detto il premier Mario Draghi. Staremo a vedere.
Federica Stea
ufficio stampa Soluzione srl