Da un po’ si è aperta, in Italia e in Europa, la discussione sul salario minimo legale. Perché questa necessità? Per ridurre la disuguaglianza salariale, contribuire a sostenere la domanda interna e garantire una concorrenza leale. Nella “Proposta di DIRETTIVA DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO” relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea, il fenomeno della dinamica salariale è così delineato.
“Negli ultimi decenni i salari bassi non si sono mantenuti al passo con gli altri salari in molti Stati membri. Le tendenze strutturali che hanno rimodellato i mercati del lavoro, quali la globalizzazione, la digitalizzazione e l’aumento delle forme di lavoro atipiche, in particolare nel settore dei servizi, hanno portato a una maggiore polarizzazione del lavoro che ha a sua volta generato un aumento della percentuale di posti di lavoro a bassa retribuzione e a bassa qualifica, contribuendo inoltre a un indebolimento delle strutture di contrattazione collettiva tradizionali. Ciò ha causato un aumento della povertà lavorativa e delle disuguaglianze salariali.”
Nell’UE in 21 paesi esistono salari minimi legali mentre in 6 Stati membri (Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) la protezione del salario minimo è fornita dai contratti collettivi.
A quanto ammonta il salario minimo mensile nei paesi che lo prevedono per legge?
Lussemburgo: 2.256,95 euro | Lituania: 730 euro |
Irlanda: 1.774,50 euro | Polonia: 654,79 euro |
Paesi Bassi: 1.725 euro | Estonia: 654,00 euro |
Belgio: 1.658,23 euro | Repubblica Ceca: 651,70 euro |
Germania: 1.621 euro | Slovacchia: 646 euro |
Francia: 1.603,12 euro | Croazia: 623,70 euro |
Spagna: 1.125,83 euro | Ungheria: 541,73 euro |
Slovenia: 1.074,43 euro | Romania: 512,26 euro |
Portogallo: 822,50 euro | Lettonia: 500 euro |
Malta: 792,26 euro | Bulgaria: 332,34 euro |
Grecia: 773,50 euro | dati Eurostat gennaio 2022 |
La direttiva, come si legge, indica nella contrattazione collettiva sui salari in tutti gli Stati membri lo strumento per affrontare il problema.
Come si vede chiaramente dalla tabella, il salario minimo legale, dal Lussemburgo alla Bulgaria varia, e non poco, in valore assoluto. Nella maggior parte degli Stati membri, il salario minimo (non è né un tetto né un salario medio) offre una copertura giudicata insufficiente a consentire ai lavoratori una vita dignitosa: per troppe persone il lavoro non è più remunerativo (discorso sullo stato dell’Unione del settembre 2020 della presidente von der Leyen).
In Italia, escludendo i contratti stipulati da organizzazioni “strane” (mi si perdoni il francesismo), i minimi contrattuali oscillano dai 7 ai 9 euro l’ora. A livello monetario siamo al livello del salario minimo della Spagna. I contratti, soprattutto aziendali, in genere, prevedono ulteriori remunerazioni aggiuntive in denaro, in welfare aziendale, in beni e servizi, ecc. Esiste il minimale contributivo, l’obbligo per il datore di lavoro del rispetto delle norme poste a tutela delle condizioni di lavoro per accedere ai benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale. Direi, quindi, anche qualcosina in più.
Se vogliamo affrontare seriamente il problema del giusto prezzo del lavoro dobbiamo partire da due cose: il lavoro “vero” e una banalità, e cioè che tra i lavoratori ci sono ottimi lavoratori e fannulloni e tra i datori di lavoro ci sono ottimi imprenditori e sfruttatori. Il buon imprenditore sa che il lavoro si paga, il buon lavoratore sa che la sua opera deve produrre un valore economico perché entra a far parte della qualità e del prezzo del prodotto la cui vendita produce anche la sua remunerazione.
A me sembra che, oggi, ci sia molta insofferenza verso il lavoro come se il sostentamento sia comunque dovuto (e in qualche modo assicurato). In epoca “storica” il lavoro era un obbligo, il sudore della fronte che consentiva il sostentamento (mettere insieme il pranzo con la cena e avere un tetto sulla testa). Molto concreto, molto semplice. Poi, con il miglioramento delle condizioni di vita, è stato un obbligo che serviva a crearsi uno status all’interno della società: studi al liceo, prendi il diploma, la laurea, vai in banca, fai carriera. Studi in un istituto tecnico, vai in azienda come apprendista, fai carriera, diventi operaio qualificato. Non vuoi studiare? Vai ad imparare un mestiere, lavori. Anche qui, abbastanza concreto, un po’ meno semplice.
Oggi il mondo corre, è in continua evoluzione e, dalla prima rivoluzione industriale, ad ogni trasformazione tecnologica è sempre seguito un radicale cambiamento in termini di competenze. L’innovazione tecnologica va a vantaggio del lavoratore, che però deve avere la formazione per usarla, deve aggiornare in maniera continuativa le proprie conoscenze e competenze, deve essere disposto a cambiare, cioè spostarsi fisicamente di luogo e anche, spesso, fra settori diversi di lavoro. I lavori cambiano e muoiono (parole desuete: francobollo, cartolina, rullino, videocassetta, lettore di contatori …), gli Stati devono governare la transizione e gli imprenditori devono investire nelle nuove tecnologie. Il “progresso” ha accorciato tempi e distanze. Quanto manca per la scomparsa delle parole agente di commercio, assemblaggio, cassiere (di supermercato, di banca, …), postino, …?
Impostare riflessioni sul salario minimo su di un piano solamente economico mi richiama alla mente i discorsi che sento fare sul reddito di cittadinanza. Allargherei, pertanto, il discorso ai molti non occupati (giovani che non hanno mai avuto un lavoro, sia quelli e quelli che non hanno interesse ad averlo, sia quelli che studiano sia quelli che non studiano e non lavorano, i cd. Neet), ai disoccupati (che sono forzatamente usciti dal mondo del lavoro e che faticano a ricollocarsi) a quelli al di fuori delle statistiche (lavoro nero), ai molti “sussidiati”. Persone che, in teoria, potrebbero sembrare fuori dalla problematica del salario minimo ma verso il quale l’assistenza pubblica esercita una forte concorrenza a danno delle occupazioni che vengono offerte dal mercato che generano un reddito simile o di poco superiore al reddito stesso.
Quanto, in realtà, il salario minimo è utile ai “posti di lavoro a bassa retribuzione e a bassa qualifica”, che tradotto significa attività e compiti meramente esecutivi a basso valore ed in competizione con Paesi nei quali il lavoro viene pagato molto poco?
Bisogna investire nell’istruzione e nella ricerca, nelle infrastrutture logistiche, nella formazione professionale. In Italia non si è investito nella istruzione e nella ricerca, si sono lasciate degradare le infrastrutture, le politiche energetiche hanno seguito strade mutevoli: “non nel mio giardino”, no al nucleare, alle trivellazioni, all’eolico ai campi solari, alla TAV alla TAP. Abbiamo lasciato impoverire la forza industriale, morire i pochi grandi poli produttivi esistenti nel nostro Paese, creato il mito del “piccolo è bello” (le eccellenze italiane, i mercati di nicchia), peccato che le imprese che operano nei mercati di nicchia producono lavoro di nicchia (o meglio nicchie di lavoro).
La lotta ai contratti stipulati da organizzazioni “strane” è l’unica cosa sicuramente apprezzabile ma, allora, almeno in Italia, basterebbe tagliare il “sottobosco” e individuare i migliori contratti collettivi esistenti all’interno di ciascun settore produttivo. Non vi fa pensare il fatto che fra i Paesi che non hanno il salario minimo legale ci siano Danimarca, Austria, Finlandia e Svezia?
Antonio Chiaraluce