Qualche anno fa, in qualità di “osservatore partecipante”, ho compiuto un breve soggiorno di studio presso un eremo benedettino camaldolese. Mi ero avvicinata a questo ordine monastico perché stavo compiendo una sorta di indagine sul pellegrinaggio, ai tempi nostri.
Ero curiosa di capire la motivazione che spingesse persone, provenienti da contesti socio-culturali differenti, a cercare un luogo in cui fosse possibile staccare dalla quotidianità.
Volevo rendermi conto di come e dove fosse possibile “ritirarsi”; la mia ricerca mi ha condotta all’Eremo di S. Giorgio, sul lago di Garda.
L’ordine monastico benedettino camaldolese permette, a coloro che lo richiedano, di sostare nella loro zona di foresteria, per il tempo ritenuto necessario.
In primis mi aveva stupita piacevolmente la presenza di ragazzi; non avevo considerato che potessero aspirare ad un simile momento di raccoglimento anche persone della mia età.
Tutti gli ospiti si erano avvicinati alla realtà eremitica romualdino benedettina, con la consapevolezza che la loro esigenza di “isolamento” sarebbe stata accolta e rispettata, e che avrebbero trovato una realtà di condivisione e distanza al tempo stesso.
Ospiti e monaci condividevano la liturgia, mentre i refettori erano separati. I pellegrini avrebbero potuto usufruire scaglionati anche della ricca biblioteca e, solo in caso di emergenza, era permesso l’uso della connessione Wi-Fi.
L’isolamento sarebbe quindi stato completo, sia “cibernetico” sia interpersonale.
Qualora lo avessero ritenuto necessario, agli ospiti era data la possibilità di relazionarsi tra di loro; era inoltre concesso di aiutare i monaci nella cura del giardino o in qualche lavoretto manutentivo.
Ma non vi erano imposizioni, né sulla convivialità né sulla mancanza di essa. Era una mera libera scelta lo star soli o meno, nel rispetto degli altri.
Unica conditio sine qua non: l’ospite sarebbe potuto entrare ed uscire solo all’arrivo e alla partenza; l’eremo non avrebbe dovuto essere considerato alla stregua di una struttura alberghiera.
Era palese che, a prescindere da età, sesso, e provenienza, queste persone fossero unite dall’esigenza di un momento per loro stessi, lontani dalla realtà di appartenenza.
Di fatto mi ero sentita fortunata di poter porre le mie domande; avrei potuto incorrere in rifiuti insindacabili ma, oltre a qualche ritrosia soprattutto tra i giovani, ho avuto le mie risposte.
Non era scontato che mi si volesse rendere partecipe di una sfera così privata della propria persona.
Mi ero quindi confrontata con una dimensione quasi onirica, diametralmente opposta a quanto io avessi sempre ricercato per il mio benessere psicofisico.
Ho ripensato recentemente all’esperimento “eremitico”, condotto grazie al mio spirito antropologico, considerando quanto stia accadendo ultimamente.
Nel corso degli ultimi due anni siamo stati ciclicamente sottoposti ad una serie d’isolamenti forzati, a volte nella solitudine più totale.
Prima eravamo fortunati. Intrinsecamente fortunati. Si poteva scegliere e decidere nella massima libertà, come, dove e con chi vivere, senza che le nostre azioni potessero metterci in pericolo.
Purtroppo l’odierna realtà, è radicalmente diversa: si vive in bilico tra “vita reale“ e “vita sospesa” per proteggere la nostra salute. Ora non si gode più del privilegio di poter liberamente disporre dell’opzione di isolarsi o meno, per un personale beneficio.
Si è cercato di sopperire alla privazione dal contatto umano, aumentando l’uso dei vari social network. Era modalità comunicativa già in voga ante pandemia, ma ora il fenomeno è quasi endemico. I social permettono una maggior fruibilità anche lavorativa (le famose call).
L’indiscusso ed enorme valore primario dei social è, a mio parere, permettere una comunicazione estemporanea con chiunque si voglia raggiungere, ovunque si trovi. Un merito inestimabile. Non di rado è diventata l’unica modalità per “vedersi”.
Tuttavia ora è oramai consuetudine, tra coloro che “stanno tanto sui social”, condividere praticamente ogni istante. Si deve mostrare cosa si fa, dove e con chi.
Certamente è un modo per esorcizzare la clausura che capita di dover vivere ma, a volte, sembra che dimostrare un dato momento, sia quasi più importante di viverlo.
Probabilmente la maggior parte di noi ha la fastidiosa abitudine di fotografare qualunque dettaglio paia in quell’attimo fondamentale da immortalare. Credo che nessuno possa esimersi da ciò.
Però il rischio di perdersi il momento c’è, perché il suddetto viene barattato con il ricordo che si trarrà dalla “storia o dalla foto”. Lo facciamo tutti, chi più chi meno. Questo modus operandi non è appannaggio esclusivo dei più giovani, come si potrebbe pensare. Immortalare e farsi immortalare, non è appannaggio di una determinata fascia di età. Non dovrebbero essere “stigmatizzati” i giovani.
La possibilità di essere sempre in contatto con gli altri virtualmente è concreta. Potrebbe sembrare che si abbia una “vita parallela virtuale”.
Ma da questa continua vicinanza online si trae un vero beneficio? Sicuramente è un buon palliativo, che concede respiro di fronte alle privazioni ma per concreta esigenza? Potrebbe esserci quasi una vaga “mercificazione” delle proprie informazioni, concedendo costantemente all’alterità di conoscere qualunque cosa si faccia. È sufficiente “pubblicare” per far sapere ogni cosa di sé. Forse è un atteggiamento lievemente esasperato, ma è anche un modo per far sapere a chi vogliamo e a chi teniamo, che stiamo bene.
Ciò che viene condiviso è un istante effimero e non si possono trasmettere le sensazioni provate. Ben diverso dal godere reciprocamente dell’altrui compagnia; momenti di normalità che ora sono centellinati.
In conseguenza di questo nostro presente, ho ripensato alla permanenza eremitica.
Si rimpiange il cosiddetto libero arbitrio. La scelta tra solitudine e convivialità era libera e personale. Quando finirà? Manzoni ha scritto «Ai posteri l’ardua sentenza».
Chiara Magrini