Il tentativo di racchiudere il significato del termine giustizia in una definizione univoca ha rappresentato, nei secoli, una delle imprese più ardue del pensiero riflesso. Al di là della giustizia dei codici di legge, esiste un’idea di giusto, privata e non codificata, che impegna il singolo come l’interprete giuridico ad osservare regole comportamentali autonomamente sviluppate dal comune sentire. La giustizia non può essere definita che nella vivacità del suo divenire. L’applicazione pratica della norma astratta al caso concreto deriva dal giudizio equitativo mediante il quale l’esperienza di vita viene ricondotta ai valori della collettività. In questo senso, il formalismo espresso dalla legge non esautora che in minima parte la legalità morale di un popolo e il diritto, come a ragione ha osservato Zagrebelsky, non si esaurisce nel dato legislativo trovandosi a valle e non a monte del procedimento interpretativo.
Eppure nel nostro Paese, la giustizia ha smesso di funzionare. La legge formale e il senso del “giusto” sostanziale non coincidono più. L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha contribuito ad esasperare le criticità di un sistema già al collasso. E’ noto, dati statistici alla mano, che per arrivare ad una sentenza civile occorrono in media 527 giorni contro i 233 dell’Unione europea. Ad essi si aggiungono i 1.032 giorni del processo in Corte di Appello e i 37 mesi utili a concludere un giudizio in Cassazione. A conti fatti una causa civile dura mediamente, per i primi due gradi, 1.559 giorni costando all’Italia, 2,5 punti PIL pari a circa 40 miliardi di euro.
Il mal funzionamento del sistema giudiziario italiano ha indotto il legislatore ad adottare, nel tempo, una serie di strumenti alternativi al processo per la risoluzione di controversie vertenti su diritti disponibili di persone fisiche, enti ed imprese.
Alla luce dei nuovi interventi normativi, il disposto dell’art. 24 della Costituzione assume un significato nuovo. La norma, nello stabilire che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, può leggersi in termini garantistici rispetto all’uso consapevole del processo considerato l’extrema ratio di cui servirsi quando il ricorso alle Camere arbitrali, agli organismi di mediazione e agli accordi di negoziazione non abbia sortito un risultato favorevole. Il cambio di rotta, dovuto in parte agli effetti della globalizzazione e dell’internazionalizzazione del diritto interno, evidenzia una sempre crescente attitudine delle parti coinvolte in un conflitto a trarre soddisfazione non tanto dal delegare a terzi decisioni che impattino sulla propria vita ma dal partecipare attivamente alla costruzione del proprio destino. Gli assunti degli avvocati su cui i giudici, bouche de la loi, si esprimono secondo il principio della piena corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, lasciano spazio ad un confronto creativo orientato alla ricostruzione della relazione umana più che alla tutela del rapporto giuridico formale. Questa tendenza spiega la crescita esponenziale dell’istituto della mediazione civile e commerciale definita dal legislatore come l’attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia anche mediante la formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa. Il mediatore svolge questa attività rimanendo privo, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti. Egli, libero dai rigidi formalismi del processo, conforma il suo agere ad un metodo flessibile adeguato alle caratteristiche del caso concreto e fondato sull’ascolto attivo quale strumento imprescindibile per la comprensione degli interessi in gioco e la costruzione delle alternative valide al superamento della lite. Il suo difficile ruolo si ispira al principio comunitario del better access to justice e richiede competenze multidisciplinari che gli attribuiscono uno specialismo professionale unico nel panorama degli amministratori della giustizia. L’obbiettivo è quello di creare metodologie alternative realmente adeguate a fornire alle parti soluzioni di cui sentirsi pienamente soddisfatte.
L’empatia, il rispetto delle opinioni altrui, l’attenzione al linguaggio non verbale dell’interlocutore insieme alla capacità di responsabilizzare le parti alla scelta finale esemplificando la complessità della vicenda umana, rappresentano le doti basilari richieste al mediatore per agevolare, sul piano operativo, il raggiungimento dell’accordo finale. Le parti devono percepire di trovarsi in una sede in cui poter trovare una soluzione autodeterminata della controversia che li vede impegnati. Per farlo il mediatore facilita la formazione delle volontà individuali parafrasando sinteticamente i dati raccolti e riformulandoli in chiave costruttiva e progettuale. Il brainstorming così ingenerato aiuterà la nascita di nuove idee. La riservatezza è la chiave di volta dell’intera procedura. Sulla scorta di questo principio le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possano essere utilizzate nel processo vertente sul medesimo oggetto anche parziale. In particolare, la riservatezza interna protegge le informazioni ricevute dal mediatore in maniera privata e confidenziale le quali non sono riferibili ad altri se non previa espressa autorizzazione. La riservatezza esterna, invece, oltre a coprire i dati forniti nel corso del procedimento, involge il divieto di proferire a terzi l’esistenza stessa della mediazione ed ogni riferimento che renda riconoscibile i soggetti coinvolti. L’accordo sottoscritto dal mediatore, dalle parti e dai loro avvocati, produce gli effetti di una sentenza costituendo titolo esecutivo per l’espropriazione forzata; l’esecuzione per consegna e rilascio; l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare; l’iscrizione di ipoteca giudiziale. La presenza obbligatoria degli avvocati garantisce la conformità del verbale alle norme imperative e all’ordine pubblico. Nell’ipotesi di mediazione volontaria o mancata sottoscrizione degli avvocati difensori, invece, il verbale deve essere omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale.
A conclusione di questa breve disamina è possibile notare che una nuova cultura giuridica si insinua nei Paesi di diritto codificato scalzando quella storicamente fondata sull’idea che la giurisdizione pubblica dello Stato sia l’unica capace di garantire e assolvere l’amministrazione della giustizia. La sua prevalenza nella risoluzione dei conflitti piuttosto che considerarsi scontata ed inevitabile deriva dalla cristallizzazione della dimensione culturale e formativa. Ad oggi, la formazione degli operatori del diritto è in fase di evoluzione e privilegia paradigmi dialettici innovativi basati sui principi della negoziazione e sulle teorie della comunicazione. Contro la crisi stagnante in cui versa l’Italia, le ADR rappresentano soluzioni efficaci. Esse indirizzano le controversie verso un canale alternativo ai giudici togati pur nel rispetto delle norme e dei principi ordinamentali. I gap del loro funzionamento dipendono dalla disciplina disorganica in cui le ha relegate il legislatore che le ha considerate come soluzioni d’emergenza più che come istituti di un sistema pluralista di tutela dei diritti non secondario e neanche alternativo ma più propriamente parallelo alla giustizia tradizionale in cui è rimessa al cittadino la libertà di scegliere il modo più adeguato di difendersi. E’ auspicabile la messa a punto di un quadro di raccordo delle diverse procedure extragiudiziali all’interno di una logica di sistema coordinata e non scollegata dalla riforma generale del processo civile.
Francesca D’Avino
Avvocato