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17 Gennaio 2025
Lavoro e Previdenza Primo Piano

Fallimento del Datore di Lavoro e Legittimazione Attiva a Domandare le Quote del TFR

(CONFERITO DAL DIPENDENTE A UN FONDO DI PREVIDENZA COMPLEMENTARE, VIA VIA MATURATE ED ACCANTONATE, MA NON VERSATE DAL DATORE DI LAVORO)

La Suprema Corte, sez. 1 civ., con la recente sentenza n. 16116 del 7.6.2023 che ha cassato il decreto impugnato e rinviato al Tribunale di Siracusa per una nuova decisione della questione sulla base dei principi di diritto affermati, ha chiarito che in caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di TFR maturate e accantonate ma non versate al Fondo di previdenza complementare spetta, di regola, al lavoratore, stante lo scioglimento del rapporto di mandato in cui si estrinseca la delegazione di pagamento al datore di lavoro, salvo che dall’istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo predetto, cui in quel caso spetta la legittimazione attiva.

Al fine di inquadrare la controversia sottoposta al suo vaglio, la Cassazione si è dapprima soffermata su un excursus della disciplina delle forme pensionistiche complementari, collocate nell’alveo dell’art. 38 Cost., al pari della previdenza obbligatoria (secondo la teoria della “funzionalizzazione della previdenza complementare“: cfr. Corte Cost. n. 421 del 1995 e n. 393 del 2000), trova il suo attuale referente normativo nel D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, emanato in attuazione della legge-delega n. 243 del 2004 (“Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria“), che ha operato una riforma organica del settore, nella prospettiva di una complessiva armonizzazione e razionalizzazione, informandolo al principio di autonomia. Il D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 1, comma 2, prevede, in particolare, che “l’adesione alle forme pensionistiche complementari… è libera e volontaria” mentre il successivo art. 3, comma 1, dispone che “le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari“, nella loro modulazione negoziale collettiva e regolamentare. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari, proseguono i giudici di piazza Cavour, è attuabile mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro e del committente, o anche attraverso il conferimento del TFR maturando (D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 8, comma 1), che comporta l’adesione alle forme pensionistiche complementari, in modalità espressa o tacita, ai sensi dell’art. 8, comma 7, lett. a), b), D.Lgs. cit.; sono queste le risorse che i fondi gestiscono secondo le modalità previste dall’art. 6 e che costituiscono la provvista delle prestazioni erogate a norma del successivo art. 11.  La rigidità degli effetti conseguenti all’adesione al Fondo, previsti dal D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 11 (che vincola la partecipazione individuale fino alla maturazione, a norma del comma 2, dei requisiti per la riscossione delle prestazioni pensionistiche, fatta salva la previsione statutaria o regolamentare del Fondo della possibilità di riscatto della posizione individuale ai sensi del successivo art. 14, comma 1, nonchè la facoltà di ottenere anticipazioni della posizione individuale maturata, a norma dello stesso art. 11, comma 7), è temperata dall’art. 14, comma 6 che, anche per incentivare la partecipazione dei lavoratori, prevede la cd. “portabilità” dell’intera posizione individuale che, come affermato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. U, 12209/2022), integra insieme con il riscatto, un “principio generale del sistema previdenziale complementare” e rappresentano un “diritto” applicabile “a tutti i fondi complementari preesistenti all’entrata in vigore della L. n. 421 del 1992, indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, ivi compresi quelli funzionanti secondo il sistema cd. a ripartizione o a capitalizzazione collettiva e a prestazione definita, essendo comunque ravvisabile una posizione individuale di valore determinabile, la cui consistenza va parametrata ai contributi versati al Fondo, compresi quelli datoriali, ed ai rendimenti provenienti dal loro impiego produttivo“. Il riconoscimento del diritto alla portabilità e al riscatto è teso a  “favorire la reale liberalizzazione dei diversi veicoli pensionistici complementari e l’affermazione piena di una reale consapevolezza del risparmiatore nella scelta dello strumento ritenuto più idoneo alla realizzazione della copertura previdenziale, in una cornice normativa volta ad ampliare le libertà di scelta dei lavoratori iscritti alle forme pensionistiche complementari, coerentemente con l’estensione dei margini di libera circolazione nel sistema della previdenza complementare e in una logica di sviluppo, in senso compiutamente Europeo, della disciplina nazionale” (v. Direttiva 1998/49/CE del 29 giugno 1998, Direttiva n. 2003/41/CE, del Parlamento Europeo e del Consiglio, 3 giugno 2003, Direttiva 2014/50/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014).

LA LEGITTIMAZIONE ATTIVA AI FINI DELL’ INSINUAZIONE AL PASSIVO DEL FALLIMENTO DEL DATORE DI LAVORO SPETTA AL DIPENDENTE OVVERO AL FONDO DI PREVIDENZA COMPLEMENTARE?

La vicenda sulla quale la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi si colloca nell’ambito dell’opposizione allo stato passivo promossa dal ricorrente avverso l’esclusione dallo stato passivo del credito insinuato al privilegio ex art. 2751 bis cc e L. 297/1982 a titolo di TFR via via maturato e solo in parte versato dall’azienda al Fondo complementare al quale il dipendente aveva aderito, per difetto di legittimazione attiva in capo a quest’ultimo. Il Giudice Delegato aveva altresì rigettato la richiesta di rinvio per la notifica al Fondo ai fini della surroga ex art. 2900 cc, c. 2, in quanto incompatibile con la speditezza della fase di verifica e “perchè la domanda del creditore che agisce in surroga dovrebbe avere ad oggetto l’insinuazione a favore del Fondo rimasto inerte, e non in proprio favore“. Interposta impugnazione avverso la pronuncia del Tribunale di rigetto dell’opposizione, i giudici di piazza cavour, hanno ritenuto meritevoli di accoglimento i motivi di censura della pronuncia.

Fatte le premesse di ordine generale dinanzi esposte, la Corte ha sottolineato come, nell’ipotesi di insolvenza del datore di lavoro che abbia accantonato il TFR conferito al Fondo di previdenza complementare, senza tuttavia versarlo, si ponga la questione “di individuare – nell’ambito del rapporto associativo tra lavoratore e Fondo, intermediato dal datore di lavoro (quale debitore delle quote tempo per tempo maturate) – quale sia il soggetto legittimato ad insinuare allo stato passivo la corrispondente pretesa creditoria, anche alla luce della previsione dell’intervento dell’apposito Fondo di Garanzia dell’Inps, in caso di omissione contributiva del datore di lavoro soggetto a procedura concorsuale, con diritto di surrogazione al lavoratore, a norma del Dlgs 80/1992, art. 5 c. 2 e 3”. Con la pronuncia 4626/2019 la Suprema Corte aveva già affrontato la questione evidenziando “l’atecnicità dell’espressione conferimento (…) ritenuta un sintomo ulteriore, sotto il profilo della libertà di selezione dello strumento negoziale, del favor per l’autonomia privata in tale ambito previdenziale rispetto a quello obbligatorio,  e la conseguente necessità di accertare la natura e la funzione del mezzo di volta in volta utilizzato dal lavoratore ai fini dell’adesione al Fondo di previdenza complementare (liberamente negoziabile tra le parti) e, segnatamente, se si tratti di una delegazione di pagamento, con incarico conferito dal lavoratore al datore di versare le quote di TFR al Fondo, ovvero di loro cessione, quale credito futuro, direttamente dal lavoratore al Fondo, o strumenti ad essi assimilabili“, trattandosi di opzioni che comportano “evidenti effetti diversi, in ordine alla titolarità del credito nei confronti del datore fallito (da insinuare allo stato passivo della procedura concorsuale)“. Con le successive pronunce 24510/2021 e 12009/2018 la Cassazione aveva riconosciuto la legittimazione attiva in capo al  lavoratore per le quote di TFR maturate e non versate al Fondo complementare dal datore di lavoro, poi fallito, sul presupposto che “anche dopo la modifica della disciplina del trattamento di fine rapporto, nel nuovo e più composito panorama normativo (…) resta fermo il fatto che il TFR costituisce a tutti gli effetti un credito del lavoratore, la cui esigibilità è subordinata alla cessazione del rapporto; di conseguenza le quote accantonate del TFR, tanto che siano trattenute presso l’azienda, quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria dello Stato presso l’INPS ovvero conferite in un Fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina l’esigibilità“.

Secondo la Corte di legittimità la legittimazione attiva ai fini dell’insinuazione al passivo fallimentare spetta al dipendente in considerazione dello scioglimento del rapporto di mandato in cui si estrinseca la delegazione di pagamento al datore. Il lavoratore, ribadiscono gli Ermellini, è legittimato a domandare l’ammissione per le quote di TFR maturate e non versate dal datore di lavoro fallito al Fondo Tesoreria dello Stato gestito dall’INPS (o al Fondo complementare) poichè il datore di lavoro “non è un mero adiectus solutionis causa e non perde la titolarità passiva dell’obbligazione di corrispondere il TFR stesso“.

NEL CASO IN CUI VI SIA STATA UNA CESSIONE DEL CREDITO IN FAVORE DEL FONDO DI PREVIDENZA COMPLEMENTARE, QUEST’ULTIMO È LEGITTIMATO AD INSINUARSI AL PASSIVO

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il lavoratore ha diritto di vedere soddisfatte le proprie pretese in sede concorsuale e, in caso di insoddisfazione totale o parziale nell’ambito della procedura di riferimento, può chiedere l’intervento del Fondo di garanzia per integrare presso il Fondo complementare i contributi non versati dal datore di lavoro, nel qual caso il Fondo di garanzia “è surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi“. L’approdo per il supremo consesso è del tutto coerente con il diritto che in prima battuta compete al lavoratore nei confronti del datore di lavoro, tanto che, in caso di fallimento di quest’ultimo, è mera facoltà del lavoratore richiedere l’intervento del Fondo di garanzia, il quale poi si surroga al lavoratore nell’ammissione al passivo fallimentare. Di talchè, non essendo condivisibile quanto sostenuto dal Tribunale, la Corte ha ritenuto che si debba dare continuità all’orientamentodi legittimità espresso nella sua portata precettiva ribadendo il principio di diritto secondo cui  “in tema di previdenza complementare, il generico riferimento, contenuto nel Dlgs 252/2005, art. 8, c. 1, al ‘conferimento’ del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari, lascia aperta la possibilità che le parti, nell’esplicazione dell’autonomia negoziale loro riconosciuta dall’ordinamento, pongano in essere non già una delegazione di pagamento (art. 1268) bensì una cessione di credito futuro (art. 1260 cc)”.

Paola Francesca Cavallero

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