Sono ormai passati più di vent’anni dalla Riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nel lontano 2001. Tale riforma modificò in modo sostanziale l’assetto istituzionale dello Stato e tra le altre cose, prometteva lo spostamento dell’imposizione fiscale dal livello centrale dello Stato verso le Regioni e gli Enti locali, per consentire l’esercizio delle nuove e ulteriori competenze assegnate agli Enti territoriali e per avvicinare i livelli decisionali ai cittadini.
Tale riforma ad oggi è stata attuata solo parzialmente e soprattutto la parte relativa all’articolo 119 della Costituzione, in cui è riassunta l’autonomia finanziaria degli enti territoriali, è risultata quasi interamente inapplicata con il conseguente differimento dell’attuazione di molti degli atti discendenti da essa (la legge delega n. 42 del 2009 e il decreto legislativo n. 68 del 2011) che avevano delineato uno specifico modello attuativo dell’autonomia finanziaria attribuita alle Regioni e agli Enti locali proprio dall’articolo 119. Queste disposizioni sono rimaste sostanzialmente inattuate, poiché proprio in quel momento storico l’Italia è stata colpita da una importante crisi economica e finanziaria, che ha determinato, quasi immediatamente, la riforma costituzionale del 2012, la quale, sulla sponda della necessità, ha imposto un regime molto più stringente per quanto riguarda l’equilibrio dei bilanci e ha contemporaneamente recepito i nuovi vincoli finanziari previsti dall’Unione europea. In questo modo si è determinata la sospensione dell’applicazione di quanto era previsto nella legge delega del 2009 e nel decreto legislativo del 2011.
A tutto ciò va aggiunto che, da quel momento in poi, si è andati verso un approccio sostanzialmente centralistico, con una riappropriazione da parte dello Stato della capacità decisionale proprio in materia di imposizione fiscale, rafforzata, anche grazie agli avvenimenti legati alla gestione dell’epidemia sanitaria, che ha determinato un’ulteriore centralizzazione delle decisioni pubbliche. La Corte costituzionale, dal canto suo, ha rafforzato proprio il ruolo dello Stato nella definizione di questi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e ha inciso sull’autonomia fiscale delle Regioni e degli Enti locali ponendo in primo piano le esigenze di risanamento dei conti e, di fatto, tramite le numerose sentenze emesse a favore dello Stato e della centralizzazione delle decisioni pubbliche e a sfavore del federalismo, ha creato una sorta di Costituzione finanziaria vivente, concretamente applicata dalla giurisprudenza costituzionale, e quindi ha di fatto applicato e supportato un sistema di finanza territoriale ancora incentrato sulla finanza derivata.
In definitiva lo Stato attualmente dispone di una competenza esclusiva relativamente all’armonizzazione dei bilanci e sulla perequazione delle risorse finanziarie e di una competenza concorrente con le Regioni (valorizzata dalla Corte costituzionale) sul coordinamento della finanza pubblica. Tale situazione ha inciso molto in termini di incertezza delle risorse finanziarie e di conseguenza in termini di competenze attribuite e funzioni da svolgere. Le decisioni sono state prese man mano dallo Stato e dal Legislatore in un’ottica di urgenza, guardando principalmente all’economicità del sistema. E’ venuta quindi a mancare agli enti territoriali quell’autonomia di spesa che deve essere collegata a un’autonomia finanziaria, cioè a una autonomia di entrata, in modo tale che essi possano esercitare le proprie competenze adattando le azioni alle necessità dei singoli territori, sulla base di risorse individuate in autonomia e non di risorse trasferite dal centro con destinazioni vincolate e soprattutto basate solo sullo storico senza possibilità di miglioramento o di crescita.
Il sistema basato sul federalismo fiscale, invece, attribuisce agli enti più vicini al cittadino (come i Comuni) maggiori funzioni e politiche di entrata e spesa, lasciando quindi agli Enti Territoriali una maggiore autonomia finanziaria. L’obiettivo di questo modello è avvicinare al cittadino la sede politica in cui vengono prese le decisioni. Nello stesso tempo però devono essere garantite delle compensazioni per evitare che solo gli Enti che raccolgono più tasse (ad esempio perché il reddito medio dei cittadini è più elevato) possano garantire maggiori e migliori servizi. Si è previsto, quindi, un meccanismo che frenasse l’allargamento delle disparità. Esso è stato individuato primariamente in un fondo perequativo destinato ai territori “più poveri”, completando così il quadro dell’assetto dei rapporti economico-finanziari tra Stato e Autonomie previsto dalla Costituzione (art. 119, comma 3). Il rischio principale di un’applicazione scorretta della norma e dell’attuazione di compensazioni inadeguate sarebbe un ulteriore allargamento dei divari territoriali, infatti un Comune con poche risorse proprie (ad esempio perché i residenti risultano avere redditi bassi) si troverebbe svantaggiato, rispetto ad un Comune più ricco e quindi con un gettito maggiore, non potendo così attuare politiche adeguate a sostenere i livelli dei servizi nel proprio territorio. A causa della sospensione applicativa della norma sopracitata sono così rimasti bloccati aspetti molto importanti e fondamentali proprio per l’attivazione dei sistemi di compensazione previsti. La mancata definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) su cui attuare una effettiva perequazione delle risorse è una delle conseguenze negative di tale arresto applicativo. Si tratta dei livelli essenziali delle prestazioni, riguardanti i Diritti civili e sociali che devono essere garantiti in modo omogeneo sul territorio nazionale. In altre parole, si definiscono i servizi minimi che devono essere offerti senza divari su tutto il territorio nazionale e per tutti i cittadini in eguale modo. Questi dovrebbero essere definiti con legge statale, come stabilito dall’articolo 117 della Costituzione, creando degli standard di servizi e prestazioni sulla base delle reali esigenze territoriali e erogando centralmente le risorse necessarie allo svolgimento di tali competenze, ma ad oggi questo principio è rimasto inapplicato e si è invece utilizzato il metodo della “spesa storica” che prevede l’attribuzione delle risorse sulla base di quanto già speso dallo stesso ente in passato e per lo stesso servizio, cristallizzando e a volte ampliando proprio quei divari tra territori che si volevano ridurre. Proprio in questo contesto oggi sarebbe auspicabile, non solo un adeguamento, ma anche una concreta attualizzazione dei servizi essenziali rispetto alle esigenze dei territori, ad esempio in riferimento ai sistemi innovativi di gestione delle emergenze o a quei servizi fondamentali per la cittadinanza, come quelli legati alla sicurezza urbana e più specificatamente ai Servizi di Polizia Locale che hanno molto a che fare con il benessere e con la qualità della vita percepita dai cittadini, abbassando così in certi contesti urbani, i livelli degli indici di disagio sociale.
Una volta definiti degli standard minimi nei servizi da garantire su tutto il territorio nazionale, sarebbe infatti possibile definire, sulla base di questi ultimi, i fabbisogni e i costi standard che ogni amministrazione deve sostenere e sulla base dei quali andrà valutata l’entità delle entrate necessarie per garantire proprio i servizi minimi. Si attuerebbe così quella transizione da un’attribuzione basata su risorse vincolate alla spesa storica (che penalizza chi ha meno servizi, o chi spende meglio) ad un criterio maggiormente qualitativo, legato alle effettive esigenze e condizioni del territorio.
I fabbisogni standard oggi, invece, sono definiti in base alla spesa media per i servizi di Comuni simili per caratteristiche demografiche, socio-economiche e morfologiche. Un’evoluzione recente, in questo senso (legge di bilancio 2021, art. 1, commi 791 e 792), è stata quella di prevedere degli obiettivi di servizio rispetto ai servizi sociali e a quelli relativi agli asili nido erogati dai comuni. Parametrare anche su questi ultimi la definizione dei fabbisogni standard va nella direzione di rendere più efficace ed equo il sistema di federalismo fiscale, in prospettiva della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
L’art. 119 comma 5 della Costituzione stabilisce che “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive (1. Possono essere assegnate solo ad alcune Regioni 2. Le aree non devono essere necessariamente nel mezzogiorno o nelle Isole, ma su tutto il territorio nazionale 3. Hanno un vincolo di destinazione e devono essere erogate solo per il perseguimento delle finalità enunciate in questo art.) ed effettua interventi speciali (art. 16 della l.42/2009: Contributi speciali prelevati dal Bilancio dello Stato, finanziamenti dell’U.E., Cofinanziamenti nazionali a programmi dell’U.E.) in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.” Tale processo è definito come perequazione infrastrutturale nell’art. 22 della L.D. 42 del 2009 e deve essere attuato mediante la ricognizione degli interventi infrastrutturali nelle strutture sanitarie, assistenziali, scolastiche, nella rete stradale, autostradale e ferroviaria, nella rete fognaria, idrica, elettrica, del trasporto e distribuzione del gas e nelle strutture portuali ed aereoportuali. Per la suddetta ricognizione dovranno essere usati degli elementi di riferimento quali l’estensione delle superfici territoriali, la valutazione della rete viaria con particolare riferimento a quella del Mezzogiorno, il deficit infrastrutturale e deficit di sviluppo, la densità della popolazione e densità delle unità produttive, i requisiti delle zone montane, le carenze della dotazione infrastrutturale e la specificità insulare, definita con parametri oggettivi per misurarne il divario di sviluppo. Tale ricognizione ha l’obiettivo di definire i criteri di priorità e le azioni da perseguire relativamente agli interventi per il recupero del divario infrastrutturale e di sviluppo risultante dalla ricognizione predetta, avuto riguardo alle carenze infrastrutturali, anche con riferimento agli aspetti prestazionali e qualitativi, sussistenti in ciascun territorio.
In previsione di un’eventuale modifica ed attualizzazione del L. D. 42/2009, sempre in un’ottica di adeguamento degli interventi alle reali esigenze territoriali, tra gli elementi di riferimento per la ricognizione degli interventi infrastrutturali, vista l’importanza attribuita oggi all’uso delle tecnologie digitali sarebbe opportuno inserire la valutazione delle reti infrastrutturali tecnologiche esistenti.
Oggi l’obiettivo del sistema di perequazione deve essere, come previsto dalla norma, garantire in modo omogeneo sul territorio nazionale il diritto dei cittadini a usufruire di servizi qualitativamente e quantitativamente adeguati e favorire lo sviluppo d’impresa e proprio nell’ottica di riduzione del divario di cittadinanza il PNRR individua come priorità trasversale la riforma che contenga “la definizione del livello essenziale delle prestazioni per alcuni dei principali servizi alla persona, partendo dagli asilo nido, in modo da aumentare l’offerta delle prestazioni di educazione e cura della prima infanzia“.
Oggi, tra gli strumenti riconosciuti utili e possibili per l’attuazione del sistema del federalismo fiscale spicca quello dell’autonomia differenziata, da applicare alle Regioni a Statuto Ordinario, e che è definito come il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia per le Regioni ordinarie, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Tale meccanismo si è imposto al centro del dibattito sul rapporto tra Stato e Regioni dopo l’esito non confermativo dell’ultimo referendum sulla riforma costituzionale e a seguito delle iniziative intraprese nel corso del 2017 dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che tramite strumenti consultivi hanno formalmente chiesto di avviare l’iter di intesa con lo Stato come previsto dall’art. 116, terzo comma della Costituzione.
Nel corso della XVII legislatura il Parlamento ha approvato alcune disposizioni proprio in attuazione dell’art. 116, terzo comma della Costituzione e ha dato il via alla fase iniziale del procedimento per il riconoscimento di forme di maggiore autonomia alle Regioni a statuto ordinario. A tutto ciò è seguita anche la sottoscrizione di un accordo preliminare, tra il Governo e le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto per l’attuazione delle forme di maggiore autonomia . In seguito anche altre regioni hanno avviato il processo di confronto su questi temi con il Governo.
“Su questi temi, alla fine della XVII legislatura, è stata svolta un’indagine conoscitiva in seno alla Commissione bicamerale per le questioni regionali. In particolare, nel documento conclusivo la Commissione ha evidenziato come il percorso autonomistico delineato dall’articolo 116, terzo comma, miri ad arricchire i contenuti e completare l’autonomia ordinaria, nell’ambito del disegno delineato dal Titolo V della parte II della Costituzione e come l’attivazione di forme e condizioni particolari di autonomia presenti significative opportunità per il sistema istituzionale nel suo complesso, oltre che per la singola Regione interessata. La valorizzazione delle identità, delle vocazioni e delle potenzialità regionali determinano infatti l’inserimento di elementi di dinamismo nell’intero sistema regionale e, in prospettiva, la possibilità di favorire una competizione virtuosa tra i territori. L’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, non deve peraltro essere intesa in alcun modo come lesiva dell’unitarietà della Repubblica e del principio solidaristico che la contraddistingue. Uno dei punti più delicati del dibattito riguarda il tema delle risorse finanziarie che devono accompagnare il processo di rafforzamento dell’autonomia regionale. Al riguardo, nell’ambito dell’indagine conoscitiva è emersa come centrale l’esigenza del rispetto del principio, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, della necessaria correlazione tra funzioni e risorse.”
Nel contesto attuale giova ricordare che il PNRR tra le principali riforme di accompagnamento e in particolare tra quelle abilitanti, prevede proprio la completa attuazione della L. n. 42/2009. In particolare il PNRR prevede un’unica milestone entro la prima parte del 2026 proprio tramite la “riforma del quadro fiscale subnazionale (Rif. 1.14)” che consiste proprio nel completamento del federalismo fiscale con finalità quali il miglioramento nella trasparenza delle relazioni fiscali tra i diversi livelli di governo, nell’assegnazione delle risorse alle amministrazioni subnazionali sulla base di criteri oggettivi e nella crescita dei livelli di efficienza nell’utilizzo delle risorse medesime. La riforma, da completare entro il primo trimestre del 2026, dovrà altresì definire i parametri applicabili e attuare il federalismo fiscale per le regioni a statuto ordinario e per le province e le città metropolitane.
Per il tema del federalismo fiscale regionale, in particolare il PNRR ha previsto proprio il superamento delle delineate difficoltà tecnico-operative in 3 tappe susseguenti: l’aggiornamento della normativa vigente (L. 42/2009 e D.lgs 68/2011), l’individuazione dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni a Statuto Ordinario che dovranno essere fiscalizzati tramite un aumento delle aliquote dei tributi e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei fabbisogni standard il tutto entro il mese di dicembre 2023.
Oggi la piena attuazione del federalismo fiscale costituisce una delle principali sfide che attendono l’Italia. Il nuovo corso del federalismo fiscale, unito alla straordinaria opportunità rappresentata dal PNRR, può rappresentare una risposta di sistema alla crisi causata dalla pandemia del 2020 e alla crisi energetica, ma anche ai divari che da sempre rallentano la crescita del paese. Con i finanziamenti previsti nel PNRR inoltre si potrà attuare un proficuo ripensamento dei rapporti tra i diversi livelli di Governo, sia in termini di competenze che di risorse proprie di ciascuno e proprio per questo risulta necessario ridefinire i poteri impositivi delle Regioni in materia tributaria, sia per rendere omogeneo il livello di prelievo sul territorio nazionale, che per evitare di tornare a sistemi basati sulla finanza derivata che risultano portatori di squilibri ed inefficienza. La definizione dei LEP e dei fabbisogni e i costi standard delle Regioni, con la conseguenza diretta di adeguare i servizi offerti dalla P.A. alle esigenze reali della popolazione e di creare ove possibili virtuose economie di scala, oggi risulta un obiettivo prioritario anche in previsione di valorizzare l’impresa italiana e di conseguenza favorire l’innalzamento dei livelli occupazionali nel nostro Paese. Infatti la qualità dei servizi e l’adeguato sviluppo territoriale risultano un vero e proprio snodo dei livelli competitivi dello Stato e di certo favoriranno la transizione e l’innovazione digitale a livello nazionale. Proprio a tutela delle regioni che oggi presentano il gap strutturale maggiore, considerate nell’ambito della gestione le più bisognose e deficitarie in termini di crescita economica e sociale, l’entità e l’utilizzo del fondo perequativo dovrebbe essere sottoposto all’approvazione della Conferenza Stato-Regioni in modo da favorire il confronto e rispettare i vari livelli di rappresentanza. Oggi si deve infatti prediligere un criterio qualitativo, legato alle effettive esigenze e condizioni delle singole Regioni, che abbia riguardo e soddisfi le istanze promanate dei territori definendo in modo coerente ordini di priorità e interventi da effettuare con criteri ispirati alla sostenibilità economica, ma soprattutto a quella sociale. In questo contesto il PNRR (e le possibilità di azione da esso derivanti) risulta la vera occasione di riallineamento tra i territori da tempo auspicata e soprattutto è, e deve essere, leva fondamentale per portare finalmente a termine la riforma dell’assetto istituzionale dello Stato.
Questa impostazione, basata su un criterio di responsabilizzazione dei singoli territori, dando il via a meccanismi virtuosi basati sulla leale collaborazione e che consentano di mettere a sistema le buone pratiche, ottenendo contestualmente un miglioramento dei livelli di controllo della spesa, risulta auspicabile.
Ovviamente la strada sarà impervia e l’errore applicativo è dietro l’angolo e proprio per questo, tutto ciò, si dovrà attuare nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, oltre che del principio solidaristico, valutando una rivisitazione dell’attribuzione di funzioni e competenze che valorizzi la capacità di pianificazione strategica dei territori; considerando la lunghezza della strada percorsa fino ad ora e l’annosità del processo fino ad oggi svolto, nonché l’entità delle risorse fino ad ora investite negli oltre vent’anni passati dalla Riforma del Titolo V della Costituzione, l’auspicio è quello di portare finalmente a termine la riorganizzazione dell’assetto istituzionale dello Stato, necessaria e fondamentale per l’evoluzione del nostro Paese e per il raggiungimento di quei livelli organizzativi e gestionali richiesti dai tempi e dal contesto internazionale contemporaneo.
Michela Toussan