Ha avuto un certo rilievo mediatico una recente decisione del Tribunale di Cosenza, che ha escluso il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne il quale lavora in un call center (Tribunale Cosenza, Sez. II, 2.1.2023).
Nella fattispecie, la moglie chiedeva al marito, nell’ambito del giudizio di separazione, un mantenimento di 800,00 euro mensili per il figlio trentenne. Sosteneva che il figlio coabitasse con la fidanzata solo nei giorni lavorativi e che il fine settimana rientrasse a casa dalla madre. Il marito, per converso, eccepiva che il ragazzo era stato aiutato negli studi, e gli erano state comprate attrezzature musicali, affinché potesse servirsene per guadagnare. Emergeva che il figlio lavora al call center in forza di contratti a termine, di volta in volta rinnovati, per 450,00 euro mensili. Il Tribunale non ha riconosciuto il diritto al mantenimento a favore dello stesso. Con ciò il giudice ha fatto applicazione alcuni principi elaborati dalla giurisprudenza della Cassazione, e che vogliamo ricordare di seguito.
L’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni “non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni” (Cassazione 17183/2020). I presupposti, che giustificano l’esclusione del diritto al mantenimento, “sono integrati: dall’età del figlio, destinata a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all’età progressivamente più elevata dell’avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti, il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento; dall’effettivo raggiungimento di un livello di competenza professionale e tecnica del figlio e dal suo impegno rivolto al reperimento di una occupazione nel mercato del lavoro” (Cassazione 38366/2021).
Inoltre, la Suprema Corte ha ormai maturato il seguente orientamento: “Il figlio di genitori divorziati, che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso” (Cassazione 29264/2022).
In altre parole, il genitore non può mantenere a vita il figlio, erogandogli una sorta di reddito di cittadinanza in luogo dell’INPS. Gli strumenti di sostegno sociale restano a carico dello Stato. È poi certamente inconcepibile che quello stesso Stato consenta che un trentenne venga pagato 450,00 euro al mese per lavorare al call center, ma non è sul genitore che possono gravare tali sperequazioni economiche e sociali.
Francesco Salimbeni