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17 Gennaio 2025
Primo Piano

La realizzazione della parità di genere sul piano giuridico nel diritto dell’Unione europea

Nel diritto comunitario il principio di parità uomo-donna svolge un ruolo chiave ai fini della costruzione del principio giuridico di uguaglianza

La parità di genere è un principio fondamentale dell’Unione Europea. Al fine di creare una società sostenibile sul piano sociale ed economico, la responsabilità in materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare dovrebbe essere condivisa tra i lavoratori, le famiglie, le parti sociali, gli enti locali e regionali e l’insieme dei datori di lavoro e dei prestatori di servizi pubblici e privati. Il trattato sull’Unione Europea prevede all’art. 3 che l’Unione debba combattere l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuovere la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. L’articolo 8 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabilisce che, nelle sue azioni, l’Unione deve mirare ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne. Tutte le persone sono uguali davanti alla legge, che è vietata qualsiasi forma di discriminazione e che la parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, anche in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione (artt. 20, 21; art. 23: “La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”). Negli anni si sono succeduti diversi interventi politici e normativi a livello europeo diretti al riequilibrio di genere e al superamento delle discriminazioni basate sul sesso e nella promozione della parità e delle pari opportunità tra uomini e donne. L’Unione Europea ha sempre avuto un ruolo fondamentale a rimuovere direttamente o indirettamente situazioni di pregiudizio o discriminazione in ambito sia pubblico che privato. Sono state adottate misure di natura legislativa e azioni politiche con un impatto rilevante di coesione sociale, oltre che economica, e di solidarietà a livello dei singoli Stati membri in materia di parità tra i sessi e di non discriminazione con riferimento all’accesso al lavoro, alla retribuzione, alla protezione della maternità, alla conciliazione tra vita professionale e vita privata, alla sicurezza sociale. Secondo uno studio europeo di European Women on Boards l’Italia ha la più alta percentuale di donne nei Comitati dei Cda/Consigli di Sorveglianza (47%), ma solo il 15% di loro è a capo dei Cda (15%) e solo il 17% ricopre ruoli esecutivi. Nel 2021 la percentuale di donne Ceo è scesa al 3%, posizionandoci così in fondo alla classifica assieme con la Germania e la Svizzera. Purtroppo, i progressi significativi della presenza femminile nelle posizioni di vertice delle società quotate e nelle grandi aziende non si registrano nelle altre dimensioni del mondo del lavoro.

L’occupazione femminile è un’esigenza culturale ma una anche questione di interesse nazionale. Diversi indicatori e studi dimostrano che una società inclusiva, che utilizza tutti i talenti che ha a disposizione, è vincente e destinata alla crescita, sviluppo e benessere. Non è solo una questione di equità e parità, ma di interesse nazionale in termini di produzione di un divario economico significativo.
Attuare un’economia più inclusiva in cui le donne partecipino pienamente, con la conseguente riduzione della discriminazione basata sul genere, è importante per la crescita economica di tutta la collettività. Produce benefici economici aumentando lo stock di capitale umano, rendendo i mercati del lavoro più competitivi e migliora la produttività. Occorre alzare il tasso di attività lavorativa femminile dando più opportunità di lavoro alle donne che oggi per quasi la metà non ne hanno: non valorizzare le competenze, il talento delle donne e non sostenere la natalità equivale a bloccare la crescita del Paese.
Secondo il Gender Policies Report 2021 dell’Inapp, “La ripresa occupazionale del 2021, letta attraverso i dati Inps sui nuovi contratti attivati nel primo semestre 2021, presenta profonde differenze di genere. A fronte di un trend simile per uomini e donne, in cui spicca il ruolo trainante dei contratti a termine, emerge un ruolo divergente del part time e dell’incidenza della precarietà contrattuale”. Secondo l’analisi dell’Istituto, infatti, il peso della precarietà si legge anche dalle trasformazioni contrattuali. Delle 267.775 trasformazioni a tempo indeterminato (da tempo determinato, stagionale, apprendistato, somministrazione e intermittente), solo il 38% riguarda donne. Inoltre, aggiunge l’INAPP, i contratti delle donne, numericamente inferiori a quelli maschili, presentano al loro interno un’incidenza comparativamente maggiore della precarietà contrattuale. In buona sostanza, non solo i contratti sono meno numerosi, ma anche più fragili. Nello specifico, guardando al totale del numero di attivazioni contrattuali (sul totale delle attivazioni) nel I semestre 2021 per le donne (poco più di 1,3 milioni), la maggior parte (38,1%) è a tempo determinato; seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, solo in quarta istanza, l’indeterminato (14,5%). Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, sottolinea come sia in aumento “il numero di donne entrate nella categoria dei cosiddetti “lavoratori inattivi” per far fronte agli impegni familiari, alle quali occorre garantire il rientro nel mondo del lavoro attraverso incentivi e sostegni adeguati. Impressiona l’aumento della precarietà delle donne e il gap occupazionale rispetto agli uomini. Secondo il Gender Policies Report elaborato dall’Inapp, la pandemia ha acuito le diseguaglianze di genere portando il tasso di occupazione degli uomini al 67,8% e al 49,5% quello delle donne. È fondamentale, pertanto, intervenire non attraverso provvedimenti spot che sviliscono la dignità delle lavoratrici, ma mediante misure strutturali e politiche attive volte a incentivare l’accesso al mercato del lavoro (…) Nel nostro Paese, inoltre, secondo il Rapporto di Randstad Research, le donne inattive tra i 30 e i 69 anni sono oltre 7 milioni. Un numero elevatissimo considerato che rappresentano il 43% delle donne italiane. Incentivare l’occupazione femminile è un presupposto essenziale per lo sviluppo e la coesione sociale del Paese. In tal senso, è necessario mobilitare risorse senza precedenti a sostegno delle lavoratrici utilizzando una parte cospicua dei fondi del Pnrr per garantire l’impiego delle donne e rimuovere gli ostacoli all’ingresso e al rientro nel mondo del lavoro. E’ necessario porre in essere politiche attive, efficaci e inclusive, nell’assoluta consapevolezza che i diritti di genere sono patrimonio di tutti”, commenta Paolo Capone. Le donne dedicano molto tempo al lavoro domestico e di cura, a costo zero; nel mondo del lavoro sono di meno e meno valorizzate, con conseguenze che pesano sul vissuto delle singole donne ma anche sull’intera società, che si trova a dover fare a meno di risorse preziose. Le donne devono ancora affrontare una battaglia e più salgono in alto, più pregiudizi, sfide e stereotipi devono affrontare. Le istituzioni e le parti sociali devono agire in sinergia, ciascuna in base al loro ruolo fondamentale, per informare sia i lavoratori sia i datori di lavoro, sensibilizzandoli maggiormente alla lotta alla discriminazione. Le istituzioni, di concerto con le parti sociali e i portatori di interessi, devono introdurre nei rispettivi programmi di studio nell’ambito dell’istruzione obbligatoria e prescolare un’educazione alla parità di genere e rendere capillare l’attività di informazione e sensibilizzazione. Le politiche in materia di parità di trattamento devono essere finalizzate ad affrontare la questione degli stereotipi nelle professioni e nei ruoli maschili e femminili.

Sostenere l’equilibrio tra attività professionale e vita familiare di genitori e prestatori di assistenza che lavorano è un pilastro europeo dei diritti sociali. La parità tra uomini e donne in termini di opportunità sul mercato del lavoro, di parità di trattamento sul posto di lavoro e di promozione di un livello di occupazione elevato.
L’articolo 33 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE stabilisce la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale, il diritto di essere tutelati contro il licenziamento per motivi legati alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale. L’Unione e tutti gli Stati membri aderiscono alla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e, più in generale, sono tenuti a promuovere e tutelare i diritti fondamentali sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. I progressi compiuti non sono sufficienti e per invertire la tendenza sono necessarie misure a favore dell’equilibrio tra attività professionale e vita familiare in risposta alla scarsità di forza lavoro e al problema dell’invecchiamento della popolazione, perché le responsabilità di assistenza non sono unicamente limitate all’assistenza all’infanzia. Secondo le stime dell’Istat relative se il tasso di occupazione per l’anno 2021 per gli uomini 15-64enni si attesta al 67,1%, per le donne scende al 49,4%. Meno di una donna su due, quindi, in questa fascia d’età risulta occupata; divari che si diversificano guardando alle ripartizioni geografiche. Al Nord è di 14,2 punti, cresce al Centro (14,9 punti) e si amplifica consistentemente nel Mezzogiorno con i 23,8 punti percentuale. In particolare, per le donne tra i 25 e i 49 anni il tasso occupazionale è cresciuto dell’1,9% per chi non ha figli mentre è rimasto invariato per chi ne ha uno; è aumentato dell’1,4% per chi ne ha due. Il gap tra chi ha figli e chi non ne ha diventa ancora più rilevante tra le laureate: se è vero che il lavoro aiuta le nascite, è altrettanto vero che non di rado quel lavoro lo si è ottenuto proprio perché non si hanno figli e (comprensibilmente) c’è il timore di perderlo in caso di una maternità. I dati confermano che la situazione delle donne sul mercato del lavoro continua ad essere difficile, il tasso di occupazione femminile si attesta su valori più bassi rispetto a quello degli uomini. La ragione principale dell’inattività delle donne è da ricondursi all’impossibilità di conciliare efficacemente la vita professionale e i compiti familiari. Le politiche in materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare devono contribuire al conseguimento della parità di genere promuovendo la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, rendendo più facile per gli uomini condividere le responsabilità di assistenza con le donne su un piano di parità, nonché incoraggiando tale condivisione, e colmando il divario di reddito, retributivo e pensionistico di genere che ha origine dalle disparità accumulate durante tutto il corso della vita delle donne e dai periodi di loro assenza dal mercato del lavoro. Devono tenere conto della riduzione degli stereotipi di genere, del riconoscimento e della redistribuzione delle responsabilità di assistenza, nonché dell’elaborazione e dell’attuazione delle norme di qualità per tutti i tipi di servizi di assistenza, riconoscendo i cambiamenti demografici, compresi gli effetti dell’invecchiamento della popolazione e il relativo impatto sulle responsabilità di assistenza. I divari nell’impiego di uomini e donne nel mondo del lavoro sono ancora troppi: è interesse comune e responsabilità di ognuno agire per l’uguaglianza di genere per un futuro più equo e sostenibile. La parità di genere non è solo un diritto umano fondamentale, ma è anche legata alla performance economica complessiva del Paese.

Sugli squilibri di genere in tema di partecipazione e posizione delle donne sul mercato del lavoro incide in modo preponderante l’impegno familiare che grava essenzialmente sulle donne che, ancorché lavoratrici, devono prendersi cura della casa e della cura di figli e genitori. Le donne sono fondamentali per l’innovazione e la crescita a lungo termine dell’economia.
Nella realtà dei fatti l’educazione e la cura dei figli, la conduzione della casa, le attività domestiche quotidiane sono ancora oggi ritenuti compiti preminentemente femminili. La partecipazione degli uomini alle ‘faccende domestiche’ è per lo più occasionale. C’è anche un aspetto culturale da non sottovalutare in questa tendenza nel temere la madre che vuole lavorare. In alcuni contesti del panorama italiano, soprattutto al Sud, la child penalty è maggiore laddove sono più forti gli stereotipi di genere, è radicata una limitante e radicata componente culturale, in cui il lavoro femminile fuori dalle mura domestiche non è molto diffuso e l’emancipazione non è vista come un obiettivo da raggiungere. La dipendenza economica delle madri dai mariti, compagni, insomma dalla famiglia (monoreddito), finisce allora per limitare in modo drastico l’autonomia delle donne, le loro libertà di scelta, le potenzialità con tutto ciò che ne consegue. Affrontare le anomalie esistenti nel raggiungimento di un equilibrio tra attività professionale e vita familiare è necessario per conciliare attività professionale e vita familiare e per rispecchiare meglio il cambiamento dell’organizzazione della vita professionale nella nostra società. Le donne devono scegliere tra l’indipendenza economica e la possibilità di creare una famiglia, sacrificando così anni di impegno e lavoro. Spesso, al rientro dalla maternità non trovano lo stesso posto e le stesse condizioni e opportunità. Facilitando la conciliazione tra lavoro e vita familiare, invece, è possibile contribuire a conseguire gli obiettivi della parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro, la parità di trattamento sul posto di lavoro e la promozione di un livello di occupazione elevato, investendo e sviluppando strutture di assistenza accessibili, a prezzi contenuti e di alta qualità per bambini e anziani, che consentano a chi presta assistenza di mantenere una vita professionale attiva. Le misure a favore dell’equilibrio tra attività professionale e vita familiare sono investimenti a lungo termine che portano prosperità economica e migliorano l’occupazione femminile. In molte realtà si sta sviluppando il welfare al livello aziendale, soprattutto nelle grandi imprese. Se un’azienda crea le giuste condizioni, le donne crescono in automatico.
Dal Rapporto ‘2Welfare Index PMI482’, che coinvolge circa 6.000 imprese monitorate dal 2016 al 2021, le PMI con un livello di welfare elevato (molto alto e alto) sono più che raddoppiate passando all’attuale 21%: “L’osservazione del cambiamento in corso nelle aziende ci induce a pensare che molti fattori interagiscano reciprocamente. Da un lato non c’è dubbio che il welfare aziendale, orientando le aziende alla tutela dei diritti e delle pari opportunità, facilitando la conciliazione tra gli impegni familiari e il lavoro, supportando le famiglie nei servizi di cura, offra soluzioni concrete per promuovere l’affermazione delle donne nel lavoro e nella carriera. Ma d’altro canto la conoscenza di tante realtà impegnate nel welfare aziendale, guidate da imprenditrici e manager o con giovani donne che nella transizione generazionale si sono affiancate ai fondatori, ci fa pensare che l’affermazione delle donne a sua volta apra la strada a un cambiamento di valori, sensibilità, culture di management che indirizza le imprese agli obiettivi della sostenibilità e alla gestione degli impatti sociali”. Il Rapporto rileva che il 49,2% delle PMI analizzate ha un livello almeno medio nell’area conciliazione vita-lavoro; quelle con un livello alto o molto alto sono il 26,6% e le misure più diffuse sono la flessibilità oraria aggiuntiva a quella contrattuale (37,1%), il sostegno alla genitorialità attraverso la concessione di permessi aggiuntivi (17,8%), l’integrazione completa del congedo (15,9%)”. Per le microimprese è necessaria invece una migliore pianificazione, in considerazione delle loro specificità, dei loro vincoli particolari e delle difficoltà che le modalità di lavoro flessibili potrebbero loro provocare.

Donne e lavoro: come influisce il gender gap.
Donne e maternità, un binomio difficile: perché il lavoro part time per le donne si trasforma spesso da un’opportunità a una scelta obbligata?
Per tantissime donne lavorare e formarsi una famiglia rimangono ancora oggi due percorsi paralleli e incompatibili per la carenza di politiche serie di conciliazione dei tempi di lavoro con i carichi familiari, oltre che a specifiche misure di sostegno alla genitorialità. La nascita di un figlio è uno dei principali fattori che contribuiscono alla presenza di divari occupazionali e retributivi di genere (motherhood penalty). Sono ancora tanti i pregiudizi radicati nella nostra società in merito al fatto che debba essere la donna a lasciare il lavoro perchè è colei più naturalmente portata a svolgere i lavori di casa e ad occuparsi dell’accudimento dei figli. Sono più di tre milioni le lavoratrici madri che in Italia svolgono un lavoro a tempo parziale, con un trattamento retributivo ridotto, possibilità di carriera minori, prospettive di pensione più bassa. Per la maggior parte non si tratta di una libera scelta ma di una strada ‘obbligata’ per mancanza di alternative (circa 2 milioni ed è involontario per il 60,2% delle lavoratrici con un impiego part time), per altre è dettata dalla necessità di prendersi cura dei figli o di persone anziane (una donna occupata su tre, per gli uomini si attesta su una percentuale dell’8,5%) godendo della maggiore flessibilità oraria e gestionale. Rappresenta nell’uno e nell’altro caso l’unica soluzione per riuscire ad occuparsi della propria famiglia senza rinunciare ad un’occupazione all’interno del mercato del lavoro. Pochissime sono le donne che la vivono come un’opportunità, che scelgono il part time liberamente per avere più tempo libero a disposizione, per avere il tempo di coltivare interessi diversi, parallelamente al lavoro, senza rinunciare a un’entrata economica fissa, motivazione che invece spinge gli uomini a scegliere tale opzione. In molti casi, confermano gli studi del Censis, la scelta del lavoro a tempo parziale porta con sé una diseguaglianza negli stipendi tra uomini e donne: a parità di mansione, titolo di studio e contratto, si registra un gender pay gap pari al 4,1% nel pubblico e addirittura del 20% nel privato.

Paola Francesca Cavallero

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