Per evitare che il consumatore possa ritenere di acquistare un prodotto italiano occorre informare correttamente i clienti circa l’effettiva origine e provenienza dei beni introdotti nel mercato inserendo indicazioni precise ed evidenti
Al fine di scongiurare il rischio di fraintendimenti sull’effettiva origine del prodotto che possono indurre il consumatore a supporne l’origine italiana la Suprema Corte di Cassazione, sezione 1 civile, è stata chiamata a pronunciarsi (v. ordinanza n. 20226/2022) sulla tutela del ‘Made in Italy’ nell’ambito del giudizio promosso da una società produttrice di calzature avverso l’ordinanza-ingiunzione con la quale la Camera di Commercio di Firenze l’aveva condannata a pagare un’ingente somma di danaro per aver messo in commercio i prodotti con un marchio con nome italiano che induceva il consumatore a ritenere che fossero di origine italiana. L’Agenzia delle Dogane aveva accertato la violazione dell’art.4, c. 49 bis, L. 350/2003 per l’uso di un marchio che richiamava un nome e cognome di persona italiana e che, stante l’assenza di ulteriori visibili indicazioni dell’origine cinese, era tale da indurre il consumatore a supporre l’origine italiana del prodotto, con conseguente violazione del ‘Made in Italy’. L’opposizione veniva respinta in primo grado perché l’uso del marchio italiano avrebbe dovuto essere accompagnato da indicazioni sull’origine estera del prodotto, a prescindere dall’ingannevolezza o decettività ed anche in assenza di diciture ulteriori del tipo ‘Made in Italy’ o bandiere o grafiche tricolori. La decisione veniva riformata dalla Corte d’appello di Firenze che annullavano l’ordinanza ingiunzione sul presupposto che “il marchio e l’origine del prodotto sono concetti diversi e completamente indipendenti tra loro, cosicché ogni impresa è libera di utilizzare il marchio che preferisce per distinguere i propri prodotti, con il solo limite dato dalla non confondibilità del segno con il marchio altrui e un nome italiano per contraddistinguere un prodotto non è, nell’attualità, indicativo dell’origine italiana dello stesso”. La Corte territoriale rilevava altresì come, nel caso di specie, all’interno della tomaia delle calzature fosse presente la dicitura ‘Made in China’ e nulla indicasse l’origine italiana del prodotto. Interposto gravame dalla Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Firenze, il Procuratore Generale chiedeva l’accoglimento del ricorso essendo l’indicazione come marchio distintivo di un nome chiaramente e tipicamente italiano stata apposta “su di un prodotto in cui l’eccellenza italiana è del tutto notoria a livello mondiale (come pure la diffusione e il successo su scala planetaria del prodotto stesso)”, con un indebito vantaggio a scapito dei consumatori.
L’indicazione come marchio distintivo di un nome chiaramente e tipicamente italiano, apposto, per di più, su di un prodotto in cui l’eccellenza italiana è del tutto notoria a livello mondiale, come pure la diffusione e il successo su scala planetaria del prodotto stesso, può ingenerare nel consumatore la convinzione che il prodotto o la merce venduta sia di origine italiana.
Nell’ambito della tutela della produzione nazionale contro atti di contraffazione o condotte idonee ad indurre in inganno il pubblico in ordine all’origine italiana di prodotti, la disposizione di cui al comma 49 bis dell’art.4 della Legge 350/2003 è finalizzata ad evitare fraintendimenti in capo al consumatore in ordine all’origine non italiana del prodotto e, in tale ottica, vengono sanzionate, in via amministrativa, tutte le condotte idonee a ingenerare situazioni di incertezza eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di «indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera» e tanto a tutela non soltanto del ‘Made in Italy’, ma anche di un’adeguata informazione del consumatore sul prodotto da acquistare.
Laddove “l’uso del marchio possa determinare fraintendimenti in ordine all’origine del prodotto e indurre il consumatore a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana vi è, invero, l’obbligo per l’azienda importatrice, esportatrice o che commercializza la merce di accompagnarla con indicazioni comunque sufficienti ad evitare qualsiasi errore incolpevole del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, indicazioni nel caso di specie non presenti”.
In generale, l’impiego della denominazione ‘Made in Italy’ è permesso esclusivamente per prodotti finiti, rispetto ai quali almeno due delle fasi di lavorazione caratterizzanti, individuate dal legislatore, abbia avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale.
Nel caso in cui l’uso del marchio possa determinare fraintendimenti in ordine all’origine del prodotto e indurre il consumatore a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana, vi è l’obbligo a carico dell’azienda importatrice, esportatrice o che commercializza la merce di accompagnare la merce con indicazioni comunque sufficienti ad evitare qualsiasi errore incolpevole del consumatore sull’effettiva origine del prodotto
La norma di cui al comma 49 bis dell’art.4 della Legge 350/2003, nel testo modificato per effetto dell’art.16 d.l. 135/2009, conv. nella Legge 99/2009, si inquadra nell’ambito della tutela del ‘Made in Italy’ al fine osteggiare le attuali tendenze di delocalizzazione di marchi nazionali di lunga tradizione imprenditoriale.
Con la Legge 24/12/2003, n. 350, prosegue la Suprema Corte, sono state emanate disposizioni a tutela del ‘Made in Italy’ per dettare una più efficace tutela della produzione nazionale contro atti di contraffazione o condotte idonee ad indurre in inganno il pubblico in ordine all’origine italiana di prodotti.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio di legittimità, veniva in rilievo l’illecito amministrativo contestato alla società. In via amministrativa sono sanzionate tutte le condotte idonee a ingenerare situazioni di incertezza eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di “indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera”, a tutela non solo del ‘Made in Italy’ ma anche di un’informazione adeguata del consumatore sul prodotto da acquistare. Ed allora, argomenta la Cassazione, “costituisce quindi fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto”.
Nel caso in esame siffatte indicazioni non erano presenti. L’etichetta apposta sui prodotti raffigurava il marchio italiano, un segno patronimico evocante la realizzazione ad opera di persona determinata che si sia avvalsa del know-how italiano in un settore di tradizionale e di rinomata produzione e non recava alcuna ulteriore indicazione idonea in modo univoco, affermano i giudizi di Piazza Cavour, ad esteriorizzare che le calzature erano state importate dalla Cina. Né tantomeno “l’indicazione ‘Made in China’ stampigliata all’interno della tomaia, con minore visibilità del solito” poteva, argomenta la Cassazione, “qualificarsi come un riferimento evidente e visibile immediatamente e quindi chiaro ed esplicito dal quale desumere, senza equivoci, la provenienza estera della merce controllata”.
I giudici di Piazza Cavour approdano a cassare la decisione impugnata sul presupposto che la condotta ascritta alla società è inquadrabile nell’ambito della ‘fallace indicazione di origine e provenienza’ dei prodotti di cui alla citata disposizione giacché la riportata indicazione non consente “di comprendere indiscutibilmente che i prodotti industriali erano stati importati dalla Cina, così essendo — senza alcun dubbio – in grado di indurre in errore la platea dei consumatori sulla effettiva origine dei prodotti” (v. Cass. 20982/2019).
Più precisamente, “l’apposizione del marchio aziendale con nome e cognome italiani, registrato, sulle confezioni, in assenza di diversa indicazione di origine e provenienza estera (precisamente cinese) integra la fattispecie contestata trattandosi di condotta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l’esatta origine geografica del prodotto”.
Paola Francesca Cavallero