La violenza maschile spesso esplode e si consuma nell’ambito delle relazioni affettive e tra le mura domestiche (matrimoni, convivenze, fidanzamenti) dove dovrebbe essere maggiormente garantita l’incolumità delle donne ed è agita dagli uomini senza distinzioni di nazionalità, religione, estrazione sociale, età. È una ‘guerra’ che nasce nelle case, dentro le famiglie, nel posto che dovrebbe essere il più sicuro e il più protetto e, viceversa, diventa improvvisamente il più pericoloso. I maltrattamenti in famiglia coinvolgono anche i figli, costretti ad assistere a ripetuti scene di violenza verbale, fisica, psicologica tra i genitori. È trasversale a tutti i livelli sociali, culturali, economici: non conosce limiti di età, razza, frontiere. La realtà è ben più drammatica dei dati che emergono dalle statistiche perché rimane ampio il sommerso, specie nei contesti familiari ove è difficile riuscire ad abbattere i muri dell’omertà e del silenzio che circondano la violenza. Oggi le donne hanno preso maggiore coscienza, è vero, ma tanti episodi di violenza ‘domestica’ e di prossimità, rimangono invisibili e non/sotto denunciati, non solo per paura di ritorsioni e/o vergogna. Le vittime decidono spesso di rivolgersi a centri antiviolenza, affrontando percorsi di fuoriuscita dalle situazioni di disagio, per le ragioni più diverse (es. sensi di colpa, sensazione di inadeguatezza) che vanno, comunque, rispettate anche se, nella maggior parte dei casi, non hanno spazi di autonomia e libertà di scelta. L’OMS ha documentato che “i costi sociali ed economici delle violenze sessuali o provocate da un partner intimo sono enormi”: la violenza contro le donne rappresenta “un problema di salute di proporzioni globali enormi”. Secondo il rapporto del Ministero della salute la violenza “ha effetti negativi a breve e a lungo termine, sulla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva della vittima. Le conseguenze possono determinare per le donne isolamento, incapacità di lavorare, limitata capacità di prendersi cura di sé stesse e dei propri figli. I bambini che assistono alla violenza all’interno dei nuclei familiari possono soffrire di disturbi emotivi e del comportamento. Gli effetti della violenza di genere si ripercuotono sul benessere dell’intera comunità”. È alla luce di uno scenario come questo che bisogna attivare gli strumenti indispensabili di prevenzione e di tutela della vittima: non accettare la violenza e denunciare tempestivamente il colpevole autore del reato, che sono parte essenziale di quel radicale cambiamento che passa attraverso l’agire di tutta la collettività. Agire nei confronti della mancata emancipazione, dei soprusi, degli amori malati, dei tanti tipi di violenza racchiusi in una cultura del possesso dilagante, sensibilizzando tutti sul drammatico problema delle prevaricazioni maschili, non solo in ambito familiare. Esortare i ragazzi e gli uomini al rispetto delle donne, a parlare di amore e ad imparare a distinguerlo dal possesso e dal controllo, che non sono componenti dell’amore. Perché questo sentimento non è mai violento né deve diventarlo.
L’attualità e drammaticità del fenomeno sono ben note nel dibattito contemporaneo, da tempo acceso intorno ai problemi di cui soffre il sistema sanzionatorio penale ed all’insoddisfazione connessa all’effettiva efficacia ed adeguatezza degli strumenti impiegati in chiave preventiva al crimine. “È una piaga che impiega la responsabilità di tutti” ha ribadito la ministra delle Pari opportunità e famiglia Elena Bonetti: “la maggiore severità della legislazione, i nuovi profili di reato introdotti dal Codice rosso, in effetti, non sembrano aver tolto la voglia agli uomini violenti. Oltre all’inasprimento delle pene sono essenziali gli strumenti procedurali che velocizzano le indagini, l’allontanamento della persona violenta e l’avvio delle misure di protezione della vittima. Altrettanto determinante è il lavoro di sinergia tra le forze dell’ordine e la comunità locale, i Comuni, le associazioni: tutte le sentinelle che hanno antenne sul territorio, le prime chiamate ad agire subito”. Non rispettare i diritti delle donne equivale a una sconfitta per tutta la comunità sociale. Di fronte ai numeri impressionanti degli atti di violenza, abusi psico-fisici, molestie sessuali online (stalking, sexting), persecuzioni, femminicidi agiti contro le donne che le statistiche ci restituiscono, occorre prima di tutto prevenire, mettendo in campo azioni concrete, anche sul fronte della formazione, per “dare alle donne – dice la ministra Bonetti – ogni opportunità per chiedere aiuto. E, subito dopo, per ottenerlo”. Per vincere la battaglia contro la violenza occorre il contributo di tutti, perché la violenza di genere è una responsabilità sociale: serve il coordinamento di Enti, Comuni, Regioni per un approccio incisivo e capillare per le attività di progettazione, formazione e comunicazione, creando maggiore rete tra gli operatori della giustizia, le forze dell’ordine, le professionalità socio assistenziali, potenziando gli aiuti all’autonomia personale, lavorativa e formativa. Arrestare questa ‘pandemia’, che non conosce vincoli sociali, economici né culturali, richiede azioni concrete e condivise in uno sforzo collettivo: “i diritti delle donne sono una responsabilità di tutto il genere umano; lottare contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne è un obbligo dell’umanità; il rafforzamento del potere di azione delle donne significa il progresso di tutta l’umanità” (Kofi Hannam).
Se da un lato le istituzioni provano a modificare ed eliminare le disfunzioni esistenti che accentuano gli squilibri, e la prospettiva sociale e politica è largamente dibattuta, molto lavoro deve essere fatto ancora sul piano culturale. “Nei confronti di questa emergenza occorre una mobilitazione culturale”, commenta la ministra Bonetti: si deve passare necessariamente per un cambiamento culturale, capace di riconoscere i sintomi di una relazione alterata tra uomini e donne per eliminare definitivamente qualunque forma di maschilismo e discriminazione. C’è un retaggio culturale da estirpare: nella sopraffazione, nella violenza, nella discriminazione e nel sessismo perpetrati contro le donne c’è una matrice culturale comune che è la mancata considerazione della loro dignità come persone, una rappresentazione della donna falsata dai pregiudizi. Su questo processo si è speso molto inchiostro e la battaglia da fare ha radici profonde negli stereotipi di genere e nelle discriminazioni, che impediscono alle donne pari opportunità rispetto agli uomini. L’obiettivo è tolleranza zero. Per sradicare la mentalità violenta occorre puntare sull’educazione, formazione, condivisione di conoscenza, consapevolezza e responsabilità collettiva che punti al pieno riconoscimento, coinvolgimento delle competenze femminili, del punto di vista e del sapere delle donne. Della diversità che è valore, qualità, arricchimento per l’intera società. Agire in prevenzione significa promuovere la formazione e l’educazione a comportamenti non discriminatori ed al rispetto delle diversità. Sensibilizzare per affrontare, strutturalmente e culturalmente, il tema della violenza come conseguenza di pregiudizi, stereotipi, discriminazioni. Fare dell’educazione lo strumento per creare una società di opportunità e responsabilità condivise, paritarie. Coinvolgere in modo sinergico e condiviso tutti i soggetti istituzionali, centrali e locali, promuovendo iniziative culturali di sensibilizzazione sul tema, di formazione sul territorio e presso gli istituti scolastici. Cambiare quella cultura che tollera e giustifica la violenza sulle donne, per combattere le disuguaglianze e discriminazioni che ne sono all’origine, ed educare i bambini e i ragazzi ad instaurare delle relazioni fondate sul rispetto delle differenze, sulla cultura della parità e sulla gestione dei conflitti senza far ricorso alla violenza.
Ognuno deve essere stimolato a combattere quella cultura deviata, purtroppo diffusa, che costringe le donne a (soprav)vivere in situazioni di soprusi e abusi fisici, psicologici, economici senza denunciare per non incappare nel ‘bavaglio’ del giudizio sociale. Ed allora, le nuove generazioni non devono essere spettatrici passive di ciò che ogni giorno accade nel nostro Paese bensì devono diventare protagoniste del cambiamento e partecipi in modo positivo contro questa piaga. Perchè, “è la cultura che deve cambiare: le credenza, la storia e il comportamento che stanno alla base della cultura. Mettere fine alla violenza contro le donne non è una forma di altruismo o qualcosa che si fa come atto caritatevole. Non è neppure qualcosa che si possa stabilire per legge, anche se le leggi contribuiscono a proteggere le donne” (Eve Ensler).
Paola Francesca Cavallero