Il Fast Fashion è un settore dell’abbigliamento in fortissima crescita e diffusione, un comparto di grande vitalità che è andato a modificare radicalmente il mondo della moda nella sua componente organizzativa e produttiva. Marchi come Zara, H&M, realizzano abiti di bassa qualità vendendoli a prezzi ridotti. Questo meccanismo di produzione, permette a tali realtà di far arrivare all’interno dei loro negozi nuovi prodotti settimanalmente e le nuove collezioni vengono lanciate in tempi brevissimi. Ma come fanno le grandi catene a vendere migliaia di abiti a prezzi così competitivi? Come fanno a produrre a ritmi così folli? Spostando la produzione in Paesi periferici e sfruttando i lavoratori, sottopagandoli, maltrattandoli e disumanizzandoli. Sono migliaia le vite perse in incidenti legati alle condizioni di lavoro dei dipendenti delle fabbriche di fast fashion. I lavoratori vengono costretti a turni estenuanti e molti di essi sono bambini a cui non viene riconosciuto alcun diritto, che vengono incatenati ai macchinari per cucire e non hanno giorni di riposo, non possono andare a scuola e sono spesso sono costretti a lavorare per mantenere le famiglie. I bambini vengono sfruttati senza ricevere il giusto compenso, non si vivono adeguatamente la propria infanzia, rischiano di ammalarsi e di perdere la vita. Paesi come il Bangladesh, in cui l’ordinamento legislativo nazionale non garantisce principi come un salario minimo dignitoso od orari di lavoro umani, vengono preferiti dai grandi marchi che retribuiscono la manodopera locale da 1,90 a 2,40 dollari al giorno, per circa 12 ore. Il “tagliare i costi” per i grandi marchi si realizza attraverso un abbassamento del salario degli operai ed una riduzione dei fondi investiti per la manutenzione e la conservazione dell’edificio, con conseguente riduzione delle tutele per i lavoratori ed un aumento di violazioni dei diritti umani. Ad esempio all’interno degli Sweat Shops del Bangladesh molte donne hanno testimoniato di essere state vittime di violenza fisica e l’aggressore aveva il fine di incentivarne la produttività e portare a termine in tempo gli ordini effettuati dai marchi di fast fashion. Shein, il marchio cinese di fast fashion che sforna migliaia di capi di abbigliamento alla settimana, secondo l’ONG svizzera Public Eye sfrutta i suoi lavoratori in posti di lavoro non sicuri. I lavoratori tagliano e cuciono abiti per più di 10 ore al giorno, altri ancora stirano i capi di abbigliamento e altri procedono a confezionarli, avendo un solo giorno libero al mese. Più di 200 operai lavorano in locali privi di sicurezza, oltre che senza finestre. Si producono oltre 1.2 milioni di capi di abbigliamento al giorno in alcuni laboratori, ed è per questo che si parla di turni estenuanti. Il prezzo così basso dei capi di Shein infatti è frutto di un mancato riconoscimento di un salario equo e di condizioni di lavoro appropriate ai lavoratori coinvolti nella produzione. Shein inoltre non rende visibili le informazioni sulle condizioni di lavoro lungo la sua catena di approvvigionamento, richieste dalla legge nel Regno Unito. Per questo motivo i consumatori chiedono sempre di più trasparenza sulla filiera produttiva. Allora cosa fa il consumatore? Continua ad acquistare, fin quando il beneficio di acquistare capi d’abbigliamento a basso prezzo supererà la propria moralità. Ma prima o poi le percezioni cambiano e la brand reputation è proprio questo: il risultato dell’insieme di percezioni, valutazioni e aspettative che i diversi stakeholder hanno nei confronti di un’azienda o di un brand, che sono frutto di fattori come la storia, la comunicazione e le condotte aziendali assunte nel corso del tempo.
Anita Marrone