Il mese scorso la legge 30 marzo 2001, n. 152, cosiddetta di riforma degli Istituti di patronato e di assistenza sociale, ha spento 20 candeline, una per ogni anno di applicazione.
La fotografia dell’epoca ci ricorda il compiacimento provato per la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e, d’altra parte, chiunque abbia partecipato in quei giorni al processo di riforma ha ancora ben presente l’impegno sostenuto in vista di un risultato che non fosse una semplice riverniciatura dell’impianto storico, risalente in maniera organica al 1947, ma un testo che eliminasse le incertezze interpretative e facesse da guida tanto alle istituzioni coinvolte quanto agli addetti del settore.
E infatti la norma uscì proprio così – un po’ legge, un po’ regolamento – mostrando fin da subito alcuni limiti applicativi, ma nel complesso dando soddisfazione a tutte le parti interessate, dagli enti che dovevano adottarla ai patronati già riconosciuti che potevano muoversi in perimetri più certi, indagando a fondo i 21 articoli di cui la norma era costituita.
Molto favorevolmente fu accolto dagli istituti il riconoscimento formale di quel ruolo di pubblica utilità che faceva fare loro un salto qualitativo affiancando, non sostituendo, la tradizionale funzione di assistenza e rappresentanza dei lavoratori di fronte agli enti pubblici per il conseguimento delle prestazioni previdenziali, con l’attività di tutela dei diritti degli assistiti in un rinnovato welfare che dedicava particolare attenzione ai bisogni di sostegno al reddito, di sicurezza e tutela della salute espressi dai lavoratori e dalle loro famiglie.
E indubbiamente ai patronati è richiesto, come risposta ai diversi momenti storici del Paese, un carico sempre maggiore in termini di servizi offerti. Prima c’è stata l’immigrazione, poi la social card per i redditi bassi, il reddito di cittadinanza e ora l’emergenza covid: tutto ciò implica un notevole impegno economico per far fronte alle esigenze di risorse umane aggiuntive, di adeguata formazione e di strumenti. Ci si aspetterebbe quindi, per dare ristoro agli enti, che venisse rivista al rialzo l’aliquota di prelievo sul gettito dei contributi previdenziali dei lavoratori, ora ferma allo 0,199 per cento.
Invece le diverse finanziarie si sono occupate perlopiù di introdurre modifiche su modifiche alla 152 nell’intento, di volta in volta, di stringere o allargare le maglie della legge per il riconoscimento giuridico di nuove realtà, o per la sussistenza dei patronati già riconosciuti.
Alla scarsità di risorse si aggiunge l’appesantimento della procedura di rilevazione dei dati utili alla ripartizione del Fondo Patronati, i circa 390 milioni di euro che annualmente escono dalle casse dell’Inps e dell’Inail.
Infatti, nonostante il Ministero vigilante e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro abbiano adottato tutte le misure necessarie per esercitare al meglio le rispettive prerogative di controllo dell’organizzazione e dell’attività svolta dai patronati, non si può ovviare ai tempi tecnici eccessivamente dilatati degli esiti delle verifiche, perché si tratta tuttora di ispezioni fisiche e perché la mole di lavoro che ricade ogni anno sugli ispettori territoriali è grande.
Così il Ministero, che dovrebbe disporre di dati aggiornati per ripartire le somme del suddetto Fondo, utilizza come parametro per distribuire le anticipazioni dati vecchi anche di cinque anni, l’ultimo è del 2015, innescando una reazione a catena che può portare purtroppo a penalizzare realtà in crescita e, per contro, a favorirne altre in costante calo d’attività. Con i saldi delle annualità si potrebbero sistemare le cose, ma i saldi tardano ad arrivare per le stesse ragioni di appesantimento delle procedure di controllo che si avvalgono di verifiche sul cartaceo e non si affidano alla tecnologia se non in minima parte.
Di qui la necessità di modificare alla base il sistema dei controlli di parte istituzionale, completando un processo di digitalizzazione dell’attività ispettiva sulle pratiche svolte a cui si è dato avvio da circa 10 anni, senza mai arrivare a conclusione. Forse proprio l’attuale momento pandemico, con il ricorso robusto allo smart working dei dipendenti pubblici e il conseguente rallentamento dell’attività di vigilanza “sul posto”, può dare nuovo vigore alla riforma in senso digitale delle procedure di controllo.
I vantaggi sarebbero tanti per tutti: meno contenzioso, un alleggerimento dei compiti degli ispettori, un sistema di ripartizione più rapido e più equo. In altre parole: la fotografia di una P.A. più moderna.
Anna La Rocca