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14 Gennaio 2025
Quale pensione per i giovani? di Luca Giustinelli
Lavoro e Previdenza Primo Piano

Quale pensione per i giovani?

I lavoratori che hanno raggiunto il traguardo della pensione negli anni ’90 o nella prima decade degli anni 2000 possono tirare un bel sospiro di sollievo.

Un viaggio nel mondo del lavoro italiano e nei cambiamenti avvenuti nel corso degli anni

Parliamo di generazioni nate e cresciute con l’obiettivo – e, spesso, la certezza – del “posto fisso”, la cui carriera lavorativa si svolgeva, spesso, tutta presso la stessa azienda, che si trattasse di una grande azienda industriale del Nord, di una delle tante imprese edili che hanno ricostruito e “cementificato” l’Italia negli scorsi decenni o, piuttosto, di una piccola impresa familiare.

Generazioni cresciute nel pieno del “boom economico”, che avevano potuto “costruirsi” una casa, mettere su una famiglia, vivere in una prospettiva ottimistica – seppure, ovviamente, con sacrifici e preoccupazioni quotidiani – usufruire di un “accogliente” welfare familiare, all’interno (specie nelle aree rurali che fino a pochi decenni fa hanno costituito la colonna portante di questo Paese) di relazioni familiari in cui ci si dava reciproco sostegno.

Ma che c’entra tutto questo con la “Pensione”?

C’entra, perché una vita lavorativa stabile ha consentito a molti di questi lavoratori (uomini, per lo più, perché per le donne il mercato del lavoro non era così generoso) di accumulare una contribuzione continuativa e stabile, che ha permesso loro – alla luce delle regole vigenti in quel momento – di accedere alla pensione con 35 anni di contributi, spesso in età ancora giovane e, quindi, con la possibilità di continuare o riprendere anche un’attività lavorativa che consentisse di “arrotondare” il trattamento pensionistico percepito.

Non sono rari i casi di lavoratori che avevano cominciato a “lavorare” a 14 anni, magari dando una mano al padre ed agli zii nell’impresa – agricola o artigiana – di famiglia, e poi sono andati ad ingrossare le fila dei lavoratori delle industrie che si andavano sviluppando e, proprio in virtù di quell’ “aiuto” dato da ragazzi, hanno potuto accedere alla pensione addirittura a 49 anni.

Ma questo discorso non vale solo per i lavoratori dipendenti, operai e impiegati che hanno contribuito alla ripresa economica dell’Italia negli anni ’60 e ’70; lo stesso dicasi per altre categorie che hanno contribuito anch’esse alla crescita del Paese: artigiani, commercianti, coltivatori diretti, braccianti agricoli, ecc., seppure con i distinguo e le peculiarità proprie di ciascuna categoria, in un sistema previdenziale che, all’epoca, era ben lontano dal risultare “armonizzato” e, anzi, era disseminato di regole specifiche e privilegi per le più svariate categorie.

Per non parlare, poi, dei lavoratori pubblici che, negli anni ’90, potevano accedere alla pensione dopo aver maturato appena 15 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi…

Non solo: a fronte di un livello contributivo tutto sommato contenuto, queste generazioni di lavoratori hanno potuto usufruire di un trattamento pensionistico “di favore”.

Il sistema retributivo

Hanno potuto infatti beneficiare dell’applicazione del sistema retributivo – slegato dall’ammontare della contribuzione versata – che prevedeva che la pensione fosse commisurata non all’intera vita lavorativa, ma solo alla retribuzione (per i lavoratori dipendenti) o al reddito (per i lavoratori autonomi) degli ultimi anni di lavoro, che veniva correlata al numero complessivo di anni di contributi versati.

Va da sé che, in un sistema economico in crescita e in presenza di carriere stabili e continuative, era naturale che la retribuzione tendesse a crescere con il passare degli anni ed a raggiungere il livello massimo proprio negli ultimi anni di attività; né era troppo complicato, del resto, “aggiustare” la retribuzione degli ultimi anni di lavoro per far sì che si potesse ottenere il maggior rendimento pensionistico possibile.

Circolava, infatti, la massima – in realtà, non esatta e troppo semplicistica – per cui “la pensione era più o meno pari all’80% dell’ultima retribuzione”.

Un sistema di questo tipo (che, in virtù delle ultime retribuzioni, erogava trattamenti superiori all’importo – seppure rivalutato – della contribuzione versata all’Istituto Previdenziale per quel lavoratore nel corso dell’intera vita lavorativa) non poteva reggere a lungo e, infatti, con il passare degli anni si è creato uno sbilanciamento che è presto divenuto insostenibile.

Il sistema contributivo

E, quindi, è arrivato Dini. E, con lui, il sistema “contributivo”, che si applica integralmente a tutti coloro che hanno cominciato la propria carriera lavorativa successivamente al 31/12/1995 (e – oggi, dopo la riforma Fornero – pro quota, a tutti i lavoratori dal 2012 in avanti).

Nel sistema contributivo, la pensione è determinata dalla somma dei contributi versati nel corso dell’intera vita lavorativa (c.d. “montante contributivo”), rivalutati in base alla variazione quinquennale del Prodotto Interno Lordo e trasformati in base ad un “coefficiente di trasformazione” soggetto a revisioni periodiche (come è immaginabile, al ribasso) in base all’aspettativa di vita: se l’aspettativa di vita cresce, quel montante accumulato dovrà prevedibilmente servire a pagare più annualità / mensilità di pensione e pertanto, a parità di età di accesso alla pensione, il coefficiente di trasformazione si abbassa.

Ma non basta. Se l’assegno così determinato non raggiunge una soglia minima di importo, il diritto al pensionamento non scatta e bisogna attendere il momento in cui l’ulteriore contribuzione versata consentirà di raggiungere questo importo minimo, oppure si dovranno aspettare i 70 anni di età (limite, peraltro, anch’esso soggetto all’incremento dell’aspettativa di vita e che, per questo, già oggi è salito a 71 anni e che i trentenni di oggi si vedranno probabilmente spostato a 72 o 73 anni) data in cui si potrà percepire l’agognata pensione indipendentemente da qualsiasi vincolo di importo minimo.

E, nel sistema contributivo, non vige più neanche l’integrazione al trattamento minimo, cioè quel “paracadute” che consente a chi abbia importi di pensione bassi e redditi di modesto importo, di usufruire di una aggiunta che garantisce (ma, di nuovo, solo a chi ha almeno una quota di pensione calcolata con il sistema retributivo!) un trattamento pensionistico a livello – almeno – di sussistenza: per il 2024, 614,77 euro mensili.

Questo, insomma, il sistema che si applica a coloro che sono entrati nel mondo del lavoro dopo il 1995.

Le implicazioni per la pensione e i giovani lavoratori

Peraltro, gli effetti di questo nuovo – e penalizzante per la maggior parte dei lavoratori – sistema di calcolo sono stati in questi anni amplificati dall’andamento sfavorevole dei fattori che influiscono sull’ammontare della pensione obbligatoria: una congiuntura economica sfavorevole e un mercato del lavoro profondamente diverso rispetto al passato.

Il percorso lavorativo di gran parte dei lavoratori giovani è infatti caratterizzato spesso da un tardivo accesso al mondo del lavoro, da una diffusa precarietà e da carriere sempre più frammentate (costellate di lavori saltuari e “collaborazioni occasionali”), discontinue e contraddistinte da retribuzioni spesso di importo esiguo; tutti elementi che, associati a tassi di crescita del PIL costantemente rivisti al ribasso, provocheranno effetti anche dal punto di vista previdenziale, facendo prevedere per loro pensioni con importi in molti casi ben più bassi di quelli dei pensionati attuali.

Infatti, poiché la pensione sarà costituita dai contributi versati da ciascun lavoratore, rivalutati in base all’andamento del PIL, un’occupazione prolungatamente precaria o saltuaria, redditi bassi (a cui corrisponde un modesto livello di contribuzione) un PIL negativo (con conseguente mancata rivalutazione dei montanti contributivi) e la periodica revisione al ribasso dei coefficienti di trasformazione del montante in pensione, non delineano uno scenario favorevole.

Uno scenario preoccupante, ben fotografato da una dichiarazione dell’allora Presidente INPS Tridico: la precarietà e i bassi salari determinano il futuro previdenziale dei giovani: un lavoro povero frutterà una pensione povera”.

Ovviamente, non bisogna generalizzare. Tutti noi ci auguriamo che la situazione economica e produttiva migliori, che il PIL torni a crescere in maniera significativa e che molti – speriamo la maggior parte – di coloro che sono entrati da poco nel mondo del lavoro possano godere di una vita lavorativa regolare e con retribuzioni o redditi medio-alti, che consentiranno loro di percepire, in futuro, una pensione dignitosa.

Il tema dei “giovani” (in un Paese in cui vengono ritenute “giovani” anche persone alla soglia dei 40 anni, un’età in cui, in altre culture, questi giovani uomini e donne hanno preso ormai da tempo le redini del Paese, dell’economia, dell’industria) affiora ogni tanto nel dibattito previdenziale, ma viene presto sopraffatto dal rumore di altre “urgenze” legate alle fasce di lavoratori prossimi al pensionamento che invocano una maggiore flessibilità in uscita.

Cultura previdenziale

Anche da parte dei “giovani”, il problema previdenziale viene sentito come un problema lontano: oggi i giovani hanno problemi ben più stringenti, quali la ricerca o la conservazione del posto di lavoro, la realizzazione professionale e personale, la difficoltà di fornire le garanzie richieste per accendere un mutuo per acquistare casa o di trovare la solidità economica per mettere su famiglia.

Che fare, quindi? 

Per prima cosa, è necessario diffondere anche nelle giovani generazioni una “cultura previdenziale” (Scuola, dove sei?): la pensione non è un traguardo da conquistare allo sprint, ma è una maratona in cui il ritmo va tenuto alto fin dal primo chilometro.

Purtroppo, quando i giovani vogliono capire cosa significa ‘in soldoni’ la pensione, hanno come loro parametro di riferimento la pensione dei loro nonni o padri (tutti al maschile non per mancato riguardo alle donne, ma perché le pensioni di nonne e madri erano già, comunque, mediamente inferiori), i cui assegni erano però calcolati con il sistema interamente retributivo o, al massimo, con il ‘misto’; ne possono trarre l’errata convinzione che, in fondo, la situazione non sarà poi così brutta. Ma non sarà così: il “tasso di sostituzione” (cioè la percentuale dell’ultimo reddito percepito dal lavoratore prima del pensionamento che la pensione riesce a coprire) che il sistema contributivo garantirà loro sarà nettamente inferiore.

Strumenti alternativi o integrativi

Dobbiamo quindi migliorare in informazione e in consapevolezza – primo passo per poter costruire una strada alternativa – cominciando a parlare pubblicamente di questi scenari, senza nascondere la polvere sotto al tappeto; altrimenti, tra qualche anno dovremo fronteggiare una vera e propria “emergenza sociale”. Se vogliamo evitarla, dobbiamo trovare una soluzione adesso, per senso di responsabilità verso i nostri figli e nipoti.

Andranno costruiti strumenti alternativi o integrativi, favorendo ad esempio una più ampia adesione dei giovani alla previdenza complementare. Ma anche in questo caso, vanno studiate forme di incentivo, perché non si può pensare realisticamente che giovani con lavori precari e retribuzioni con cui faticano a soddisfare le loro esigenze primarie e con cui hanno difficoltà a costruire un progetto di vita, possano anche autonomamente contribuire volontariamente ai Fondi di previdenza complementare in misura necessaria a produrre effetti significativi sulla futura pensione.

Certo, non dobbiamo drammatizzare. Ma la questione va affrontata in maniera seria e con tempestività e, possibilmente, con uno sforzo di fantasia che ci consenta di progettare strumenti nuovi, andando al di là degli schemi ormai consueti che finora non hanno prodotto risultati apprezzabili.

Previdenza e riforme pensionistiche

Quel che è certo è che nel dibattito sulla previdenza e sulle riforme pensionistiche serve introdurre una progettualità anche per misure che guardino ai giovani. È arrivato il momento di “pensare a lungo termine” puntando a risultati strutturali, piuttosto che continuare a mirare solo a obiettivi di breve periodo – “Quota 103” docet – spinti spesso solo da interessi elettorali o di bottega.

Dobbiamo quindi evitare che questa fascia di popolazione in futuro possa versare in condizioni di bisogno economico, rappresentando così anche un problema sociale a cui lo Stato dovrà fornire risposte in termini di maggiore assistenza e sostegno.

Luca Giustinelli

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