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17 Gennaio 2025
Primo Piano

Quale futuro per la maternità in Italia: la condizione delle mamme.

La denatalità in Italia è un problema che non trova ancora una soluzione. Nella nostra nazione la diminuzione delle nascite continua ad avvalorare una duratura tendenza al ribasso, dal 2008 le nascite registrate da Istat sono calate del – 30,6%. Comprendiamo meglio questa statistica quando la traduciamo in numeri: 176.410 neonati in meno negli ultimi 13 anni (Dati Istat). Sempre secondo Istat è stato registrato un record negativo del -1,1% nel 2021 ovvero circa 4.500 nascite in meno rispetto al 2020. Nel 2021 i nati, di fatto, sono scesi a 400.249. Il numero medio di figli per donna ha subito un leggero rialzo a 1,25, rispetto al 2020, anno in cui i figli per donna erano circa 1,24. Solo se quella soglia salisse almeno a 2,00 figli per donna potremmo guardare al futuro con maggiore serenità. La gravità dei dati in Italia è tale che in prospettiva c’è il rischio concreto che la popolazione in età lavorativa non potrà garantire la tenuta sociale ed economica dell’Italia. L’invecchiamento dell’Italia è palpabile se si considera la proiezione dei dati attuali nel 2042, tra poco meno di 20 anni, quando avremo 6,8 milioni di lavoratori in meno che rappresentano il risultato delle culle vuote di questi anni. È grigio ed inquietante il futuro che si profila per i nostri nipoti che nasceranno nel 2023 e che nel 2032 avranno 20 anni.  Verosimilmente si avrà un grosso squilibrio demografico dato dall’età media della popolazione sarà di 50 anni, con una forte crescita degli anziani (+ 4,9 milioni). Contestualmente si avrà una consistente diminuzione del numero dei giovani, da 37, 5 milioni del 2022 a 25, 3 milioni. In questo scenario mancherà la mano d’opera sia per diminuita popolazione in età lavorativa che per salari e condizioni di lavoro che in alcuni settori saranno percepiti come inaccettabili. Il professor Alessandro Rosina, docente dell’Università Cattolica ha individuato la causa madre del calo di natalità nel sistema che orienta le coppie a pensare ad “un figlio come costo economico e complicazione organizzativa piuttosto che un valore collettivo su cui tutta la società ha interesse ad investire”. In un’intervista su Rainews lo stesso Rosina ha aggiunto una considerazione su una delle dinamiche a cui è imputabile l’aggravamento dell’incessante calo demografico: l’autoalimentazione della denatalità. È evidente che si “innesca un processo di avvitamento continuo verso il basso” ovvero “Le poche nascite passate riducono la popolazione di oggi, nell’età in cui si forma la nuova famiglia, con conseguente riduzione delle nascite future”. L’età media del parto, infatti è salita a 32, 4 anni nella media nazionale, questo sottintende un range più basso di età, ad esempio, in Sicilia con un’età media del parto di 31,4, fino alla Basilicata dove le donne partoriscono mediamente a 33, 1 anni. Secondo l’Istat al 1° Gennaio del 2022 (Fonte: Domolstat) nel totale della popolazione residente in Italia solo il 12, 7% è rappresentato da una fascia di età che va dai 0 ai 14anni, mentre la fascia centrale che va dai 15 ai 64 anni pesa il 14%; mentre la fascia che risulta percentualmente più elevata è quella degli over- 65 con il 23,8%. Il dato più allarmante che ne deriva è che l’indice di vecchiaia è di 187,9, il più alto degli ultimi vent’anni e che l’età media della popolazione italiana residente è di 46, 2 anni. Incredibile come ricorrano nell’arco del tempo anche le statistiche che riguardano il deficit di sostituzione naturale tra il numero di nuovi nati e quello dei morti. Nel 2020 è stato registrato un deficit di -335.000 unità, un dato secondo solo a quello registrato in seguito a quello che si ebbe in seguito all’epidemia dell’influenza chiamata “Spagnola” nel 1918 (-648.000) quando l’epidemia fece registrare la metà circa dei decessi nell’anno. Anche nel 2021, la Pandemia di Covid-19 ha contribuito a far registrare un calo della natalità. Da sempre i comportamenti riproduttivi vengono influenzati dall’ incertezza sul futuro. La reazione rispetto all’instabilità lavorativa, al mercato del lavoro così frammentato come quello odierno in Italia portano a rimandare nel tempo le decisioni importanti della vita: lasciare la casa dei genitori acquistare o affittare un appartamento per un eventuale nuovo nucleo familiare, sposarsi o avere figli, dal primo figlio a quelli successivi, sono tutte scelte che vengono prudenzialmente spostate sempre più in avanti nell’età dei giovani. Le criticità sono in particolare nell’ingresso delle donne e dei giovani nel mercato del lavoro, nella precarizzazione del lavoro soprattutto in occasione di perdita di reddito tra i giovani, perdurante nel tempo o persino permanente o dal basso reddito.  Tutti fattori che giocano un ruolo importante nella realizzazione dei piani familiari per le coppie, le cui decisioni e comportamenti vengono fortemente influenzati dalle variabili tempo, soldi ed energie da investire. L’inconciliabilità tra vita lavorativa e personale dovuto ad uno scarso work life balance influisce sull’organizzazione familiare in caso di nuclei con figli scarsamente supportati da politiche di welfare familiare. A salvare la situazione sono i nonni, che si occupano dei bambini fino a 2 anni di età nel 60,4% dei casi, percentuale che sale fino al 61,3% in età pre- scolare dai 3 ai 5 anni di età. Le nonne rappresentano un ancora di salvezza per le mamme lavoratrici che hanno bambini fino ai 10 anni di età. Baby-sitter, tate e nidi sono appannaggi per i più benestanti. Osservando i dati italiani sul mercato del lavoro alcuni ricercatori nominati nel rapporto di Save the Children, hanno puntato i riflettori sulle disparità di genere nella percezione di salari (i maschi diplomati guadagnano in media il 34% in più rispetto alla collega) e nelle aspettative di carriera, che diminuiscono dopo la nascita del figlio. Dopo il giro di boa dei 30 anni accade che gli uomini hanno prospettive di aumento di salario, mentre per la donna la traiettoria del salario subisce un appiattimento, come se l’apice di guadagno non potesse andare oltre quello già raggiunto. Purtroppo, quando la coppia deve decidere chi dei due debba ricorrere al part time, facendo un semplice calcolo economico, il nucleo familiare ci rimette meno se a rinunciare al posto di lavoro o alle 40 ore settimanali è la mamma. Nel post- pandemia si è verificata una ripresa dell’occupazione, secondo il rapporto “Gender Policies Report” dell’INAPP generato sulla base di dati INPS, delle 267.775 trasformazioni a tempo indeterminato da ogni genere di contratto a tempo determinato, stagionale, apprendistato o da somministrazione e intermittente, solo un numero esiguo rappresentato dal 38% di esse è spettato alle donne. L’INAPP racconta un altro dato triste e ingiusto: i contratti delle donne non solo sono meno di quelli degli uomini ma presentano al loro interno maggiori elementi di precarietà contrattuale. La disparità risulta evidente quando si comparano i dati del I semestre del 2021:  oltre 2 milioni di contratti attivati per gli uomini, (di cui il 44% è a tempo determinato, 2 contratti su 5 sono a tempo indeterminato), solo una cifra di poco superiore a 1, 3 milioni di contratti attivati per le donne, di cui il 38, 1% a tempo determinato (la maggior parte), in testa seguono il lavoro stagionale con il 17, 7%, la somministrazione con il 15, 3%, e per la minima parte con il 14, 5% l’indeterminato. A fare la differenza per il futuro è l’Assegno Unico Universale, come previsto dal decreto attuativo, a seconda dell’Isee, tutti i genitori che hanno figli a carico fino al compimento di 21 anni di età hanno diritto a ricevere un assegno mensile che può variare da un minimo di 50 ad un massimo di 175 euro a figlio a seconda se le famiglie sono con i genitori sono entrambe occupati, numerose o con presenza di disabilità, indipendentemente dalle condizioni lavorative dei genitori, lavoratori e non, dipendenti, disoccupati, autonomi, precari, inattivi. Dal quadro di insieme descritto dal Rapporto sulla maternità di Save the Children è emerso un forte legame tra le condizioni svantaggiate delle mamme in Italia e lo sviluppo del Paese.  Non sostenere la natalità ma soprattutto rinunciare o favorire la rinuncia al lavoro da parte di mamme impoverisce le imprese e l’economia di talenti e risorse, spesso più qualificate e più formate. Per promuovere la natalità in Italia ed il benessere delle famiglie è prioritario assicurare i servizi educativi per la prima infanzia, garantire un sistema informativo sui servizi attivi per la prima infanzia, ed un affiancamento concreto nel percorso nascita e nei primi 1000 giorni di vita del bambino con una co- progettazione dei servizi per la prima infanzia in sinergia con i servizi socio sanitari del territorio, per una presa in carico dei bambini e dei genitori. Un percorso con obiettivi ambiziosi e, per ora, lontani dall’essere raggiungibili per molte Regioni italiane.

Teresa Sisto

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