Questioni distinte, eppure non troppo distanti
Da anni il tema delle discriminazioni è al centro del dibattito pubblico e mediatico nazionale. Si tratta di una problematica dalle innumerevoli sfaccettature e cause che risulta molto difficile da analizzare e, quindi, risolvere attraverso la mera produzione di norme. Ciò nonostante, per il caso italiano, due delle sue componenti appaiono strettamente connesse: all’aumentare del divario territoriale aumenta anche il divario di genere. Da un lato si tratta, quindi, della storica questione meridionale. Un problema endemico dell’Italia e remoto tanto quanto l’origine stessa del Paese unito, malgrado sia rimasto irrisolto nel corso dei decenni e tuttora si protrae con gravità evidente. Dall’altro, invece, vi è il divario di genere, un tema certamente non più recente del primo, benché percepito come problematico, dunque, degno di attenzione particolare, solo dagli anni sessanta dello scorso secolo. Il mondo del lavoro, specialmente in Italia, ha un problema con le donne. Lo si coglie anche solo semplicemente consultando analisi di tipo quantitativo, ovvero sorvolando quelle che possano essere le condizioni effettive o del caso specifico. Per esempio, è stato il genere femminile quello a subire maggiormente le nefaste conseguenze della crisi pandemica e di quella economico-sociale che ne è conseguita. Addirittura, per esprimere la portata del fenomeno registrato in Italia c’è chi ha utilizzando una contrazione fra due termini inglesi, parlando “she-cession” piuttosto che di una recessione generale. Dalle indagini di Eurostat riferite al 2020, il tasso relativo all’occupazione femminile nel Bel Paese è complessivamente sceso dell’1,1%, passando dal 50 al 49%. Questo ha fatto sì che aumentasse ulteriormente la distanza (già evidente nei report degli anni addietro) relativa al numero delle donne attive in Italia rispetto alla media registrata nel resto d’Europa. Nell’anno della pandemia c’erano nell’Ue 62,4 donne lavoratrici in media ogni cento. L’Italia si conferma così fra i Paesi con il più basso tasso di occupazione femminile nell’Unione: peggio di noi soltanto la Grecia, con il 47,5% di donne attive. Al contrario, il divario risulta meno evidente se si confrontano i dati relativi all’occupazione maschile: gli uomini in età da lavoro (15-64 anni) in Italia erano il 67,2% a fronte del 72,8% medio Ue (Eurostat, 2020). Appare opportuno soffermarsi su questo tipo di studi e sul genere “occupato”, oltre che sui numeri, perché è attraverso questi che risulta possibile una sorta di istantanea sullo stato dell’arte in materia di parità di genere. La libertà delle donne, come quella di qualsiasi altro soggetto, passa inevitabilmente dall’indipendenza economica e dal lavoro che possa rendere dignitosa e bella l’esistenza di ciascuna, nonché permettere l’autodeterminazione. Il diritto al lavoro deve qui, pertanto, essere interpretato come diritto alla vita, come strumento attraverso il quale il singolo riconosce il proprio valore e porta avanti i propri interessi, sentendosi, al contempo, utile e pienamente integrato nella società in cui vive. Unendo poi la questione delle differenze di genere con l’altro grande argomento, quello delle divergenze territoriali, si tratteggia uno scenario ancor di più critico e allarmante. In effetti, se la media dell’occupazione femminile in Italia è risultata già inferiore di 13,4 punti percentuali rispetto a quella Ue, questo dato non risulta uniforme per le diverse zone della Penisola. Mentre alcuni territori si allineano sostanzialmente al resto d’Europa, come l’Emilia- Romagna che si attesta sul 62% di donne lavoratrici, molto lontane sono le regioni del Sud, dove si scende di circa 33 punti percentuali. Si tratta di appena il 32,2% per il Meridione e del 33,2% per la Sardegna e la Sicilia insieme. In alcuni territori specifici, poi, le cose vanno ancora peggio, con la Campania che raggiunge il minimo assoluto del 28,7%, la Calabria appena il 29% e la Sicilia il 29,3% (Eurostat, 2020). Quello che risulta è, così, una differenza enorme, un Paese diviso e diverso per condizioni non soltanto economiche, ma anche sociali e civili che dalle prime conseguono. Contesti così disuguali che alcuni potrebbero pensare che si tratti di due nazioni a parte. Facendo poi riferimento alla situazione occupazionale femminile da un punto di vista fattuale, emerge una sorta di discriminazione nella discriminazione. Sono le donne del Meridione, infatti, quelle che devono pagare il pegno sociale di essere nate col sesso sbagliato, oltre che già fare i conti con un contesto territoriale di per se insoddisfacente. Penalizzate due volte, dunque: prima dall’assetto socio-culturale e dalle aspettative di ruolo e di genere, poi dalla congiuntura economica e dall’offerta territoriale, evidentemente sfavorevole in termini di pari opportunità, risorse e servizi rispetto alle più prospere regioni Settentrionali. Il divario di genere è, quindi, più evidente in alcune aree e specifiche regioni e questo non soltanto perché le lavoratrici del Sud sono di meno di quelle del Nord in termini percentuali, ma anche perché le stesse hanno lavori meno qualificati e meno garantiti e, ancora, perché sono meno retribuite a parità di mansioni e ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi maschi. Infine, il quadro peggiora alla presenza di prole; tanto più alto è il numero di figli, tanto minore sarà la probabilità per una madre (specie quando vive al Sud) di accedere al mercato del lavoro e/o di mantenervi rapporti stabili. In sintesi, che si tratti di gender gap o di divario Nord Sud il problema da affrontare è unico: come riuscire a superare certe tipiche criticità italiane e, dunque, riequilibrare un sistema che per troppi anni ha funzionato in maniera inefficiente e certamente incongruente rispetto alle necessità concrete della cittadinanza. In particolare, non si può continuare a pensare di superare il divario di genere se prima non si supera il divario territoriale e viceversa. Le due questioni concorrono parallelamente e meritano, pertanto, di essere affrontate allo stesso tempo anche per ottenere risultati più evidenti su entrambi i fronti. A questo proposito, un’opportunità importante al Paese sembra oggi essere rappresentata dal PNRR: “sembra” perché la soluzione non arriva in maniera automatica, ma bisogna ben pensare a come indirizzare i fondi europei, nonché pianificare prontamente i giusti interventi e le necessarie riforme. Solo così potrebbe determinarsi l’epocale cambiamento da tempo atteso, sul fronte dei divari territoriali, come in quelli di genere e quelli generazionali.
Mariagrazia Napoletano