Vi porto a scoprire l’epoca del cinema muto nel 1910-1920. A Roma non esisteva ancora Cinecittà e i teatri di posa erano delle strutture simili a dei grossi hangar in legno ferro e vetro. La luce solare veniva fatta filtrare attraverso i vetri. Quando si giravano le scene dei film in studio, le luci delle macchine artificiali dell’epoca non erano abbastanza potenti e quindi si dovevano realizzare attraverso l’aiuto della luce solare. Il teatro di posa era importante perché era un luogo di sperimentazione artistica. All’epoca le pellicole venivano dipinte a mano (viraggio). Ricordiamo per esempio alcuni film futuristi dipinti attraverso dei motivi cromatici. Anton Giulio Bragaglia realizzava scenografie e sperimentazioni fotodinamiche che fondevano la velocità e il dinamismo del Futurismo e del Dadaismo con la varietà espressiva del cinematografo. La casa di produzione cinematografica più importante a Roma nei primi anni del 900 era la Cines specializzata soprattutto nella realizzazione di grandi film storici. Il primo stabilimento della Cines era stato costruito nel 1905 in Via Appia Nuova (Vicolo delle Tre Madonne) tra Via Magna Grecia, Via Sannio e Via Vejo. Anton Giulio Bragaglia descrive in maniera eloquente il primo teatro di posa Cines e la campagna circostante: “I vecchi sanno che noi Bragaglia siamo figli d’arte, non per parentela con la grande Marinella Bragaglia e con le tribù bragagliesche del teatro dialettale siciliano, ma perché nostro padre fin dal 1909 fu direttore generale della prima Cines dove noi demmo i natali artistici. Il teatro da presa della Cines era allora unico; il secondo lo fabbricò papà, molto grande, tutto in vetri, perché allora si girava al sole. Davanti c’erano la fabbrica degli apparecchi da presa e da proiezione, lo stabilimento di sviluppo e stampa, i magazzini dei costumi e il resto. Gli stabilimenti erano incorniciati da un superbo campo di broccoli, carciofi, finocchi posseduti da un ricco vignarolo soprannominato Cannuccione, grande amico nostro e organizzatore di sardanapalesche merende all’aperto. Roma finiva alle mura, una bassa e magra fila di casette fiancheggiava la Via Appia Nuova e dietro questa, gli orti intenerivano i più chiari verdi acquosi. La “marrana” di San Giorgio, un torrentello che scorre sotto il marciapiede sinistro dell’Appia Nuova, era scoperta e lo stradone risultava un po’ stretto. Quando i carri infiorati delle “minenti” passavano per le ottobrate, secondo l’antica tradizione ormai semispenta, le sale delle ruote si scontravano, non essendo la strada capace di tanto traffico. Le treggie sobbalzavano fra gli strilletti festosi delle matrone infiorate. Le osterie fiancheggiavano l’Appia con pergolati ombrosi. Un’aria gaudente, protetta dal Grasciere capitolino, profumava la veduta dei Castelli all’odor di rosmarino degli abbacchi arrosto e della “stragge di polli”. “In questa cornucopia con veduta di Rocca di Papa nel fondo, s’era annidato il primo cinema italiano. L’Urbe aveva due sole sale da proiezione: quella di Alberini all’Esedra e il Lux et Umbra, più facilmente chiamato oggi Olimpia. Il nome dei fratelli Lumière era sulla bocca di tutti, e da Parigi, arrivavano i primi “Pathè Journals”. “Vedi ancor questa e allegrati”, dicevo in cuor mio. Ancor questa perché soltanto dieci anni prima il genitore mi aveva detto un bel mattino: “Se sei buono ti farò vedere la carrozza senza cavalli”. Andammo da Aragno e alla mezza, passò il principe Borghese con Luigi Barbini, sulla prima automobile, che aveva un manubrio come i tram, e la “serpa” delle carrozze, proprio “senza cavalli”. Il cinema era una cosa magica, tanto più che il suo discendere dalla lanterna magica era presente a tutti. Il cinema muto romano era in forte ascesa.
“Ancor questa perché soltanto dieci anni prima il genitore mi aveva detto un bel mattino: “Se sei buono ti farò vedere la carrozza senza cavalli”.
Piermarco Parracciani