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22 Gennaio 2025
Arte e Spettacolo Rubriche

La musica è bella perché è varia

Quante volte ti sei sentito perso? Quante volte hai provato a spiegare ciò che sentivi, ma nessuno è riuscito a comprenderti a pieno? Quante volte le lacrime hanno preso il sopravvento e non ti restava altro che lasciarle uscire, percorrere la tua guancia e farti crollare in un pianto disperato, come un bambino a cui si è rotto il suo gioco preferito? Allora ti accucciavi a letto, cercando di fare altro, ma niente ti distraeva, niente placava quel buco nero che ti stava divorando da dentro. Poi, però, dall’altoparlante del tuo telefono, dalla macchina o dalla radio al supermercato, hai sentito quella melodia che stava bussando alla porta del tuo cuore. Le hai aperto, hai ascoltato ciò che aveva da dirti, ti ha abbracciato come nessuno fino ad allora e finalmente hai ritrovato te stesso, chi ormai credevi fosse andato via per sempre. Ora hai una nuova amica, una compagna di gioie, paure, felicità, rabbia e tristezza. Ora al tuo fianco hai la musica, un’arte che non ha barriere né temporali né sociali. Difatti il filosofo Schopenhauer la riteneva in grado di farci comprendere l’essenza più profonda delle cose, al di là dei limiti che la ragione o la scienza ci impongono. Eppure, d’altro canto, non erroneamente, Pitagora concepiva la musica come, addirittura, scienza della ragione e della matematica, capace di coinvolgere tutte le leggi dell’Universo. Insomma, ognuno ha una sua idea della parola “musica” e, forse, è proprio per questo che è così bella, proprio grazie alla sua soggettività, capace di unire generazioni e popoli diversi fra loro. Col passare degli anni ha cambiato stile, ritmiche e addirittura tematiche, ma il suo valore morale e artistico è sempre lo stesso. Che siano gli uomini primitivi con pietre e ramoscelli, Billie Holiday con la sua “Solitude”, De André con “Don Raffaè” o Tiziano Ferro che chiede “Xdono”, ha da sempre suscitato qualcosa nel cuore di chi l’ascolta, sentimenti e impressioni, positive o negative che siano. Come canta Bocelli, “sopra un palco o contro un muro, anche in un domani duro, ogni giorno una conquista, la protagonista sarà sempre lei”. La musica è ovunque, anche in una lavagna grattata; non è qualcosa in sé, ma ciò che tu pensi che sia. E’ la forma di espressione più elevata, la forma di amore più pura, la lacrima più felice che ci sia. Proprio per questo si sbaglia nel dire la frase “questa non è vera musica”. Ciò che è musica per me, può non esserlo per te e viceversa. Quando qualcuno non condivide la nostra idea o quando ci sono divergenze, giustifichiamo la cosa con la frase “Il mondo è bello perché è vario”. Perché la musica non dovrebbe seguire questa stessa filosofia? Perché la tua canzone preferita può farmi schifo e la mia a te far ribrezzo? Ognuno di noi ha un qualcosa dentro che lo rende ciò che è. Chiamala anima o chiamalo cervello (per i più pragmatici), ma una cosa è certa: siamo diversi, abbiamo vissuto esperienze diverse e proviamo cose diverse gli uni dagli altri. Molto spesso associamo i ricordi a determinate situazioni o parole che, sentendo o vedendo, ci riportano a quel momento, rivivendo tutte le emozioni dell’epoca. Ad esempio, per un ragazzo che insegue un sogno che, agli occhi dei suoi coetanei, è pura follia, “L’isola che non c’è” di Bennato gli smuoverà un qualcosa dentro che magari in un altro non c’è. Per una ragazza che ha dovuto combattere una vita per ottenere la sua libertà, “Girls just wanna have fun” di Cyndi Lauper avrà molto più significato di un’altra ragazza più emancipata, che ascoltandola, invece, la riterrà semplicemente allegra e piacevole da sentire. Una donna che ama l’amore, ma che deve sopportare tutti i giorni le malelingue del suo paesino, piangerà nel sentire “Bocca di rosa” di De André. Un uomo che ha paura di piangere, che si sta facendo quasi sottomettere dalla sua virilità, farà fatica a trattenere le lacrime sentendo “Alla mia età” di Tiziano Ferro. Gli artisti hanno un grande potere, che a volte, però, è anche una grande condanna. Per trasmettere qualcosa, bisogna dire la verità in ogni singola parola del testo, altrimenti sarà una canzone che tutti ascolteranno, magari perché con una batteria molto presente o per le linee melodiche particolarmente suggestive, ma che pochi sentiranno davvero. Le parole hanno un peso e bisogna saperle usare e gli artisti ne sono pienamente consapevoli. Eppure, allo stesso tempo, ognuno è libero di esprimersi come vuole. Basti pensare alla raffigurazione della donna per un cantante come Jovanotti o a quella per Paky, alla vastità di argomenti come droga e alcool nei testi di Sfera Ebbasta o all’omosessualità trattata da Lil Nas X. Insomma, oggigiorno, purtroppo o per fortuna, non esistono più limiti creativi né di censura. Questo, però, è stato un processo molto lungo, che ha suscitato polemiche e disdegno in tutto il mondo. Potremmo iniziare a parlare di vera e propria denuncia sociale (per quanto concerne il nostro Paese) nel 1968, con l’inizio del cantautorato italiano. Negli anni 70’ e 80’ sono stati scritti e prodotti capolavori, degni di tutto il successo che hanno ricevuto. Degli esempi lampanti sono Eugenio Finardi, contro l’autoritarismo, Luigi Tenco, col rifiuto alla guerra, Bennato, che polemizzava gli indottrinamenti ideologici o De André, con la costante rivendicazione di libertà, completamente distante ai valori borghesi del tempo. Questo utilizzare la musica come mezzo di denuncia non è prettamente italiano, bensì è anche presente nel resto del mondo. Basti pensare a Stevie Wonder, a favore delle minoranze, Bob Marley, che ha scritto la storia del raggae, Stromae, che parla di fragilità e solitudine, John Lennon, contro la guerra e la violenza, Tupac Shakur, che ha rivoluzionato il modo di pensare dei giovani del ghetto, e tanti altri. La musica che conosciamo oggi, però, non nasce come mezzo di comunicazione né come denuncia sociale. Immagina di essere portato via da casa, per svolgere un lavoro che non ti piace, faticoso e stressante. Immagina di non poter avere un letto, di non poter avere delle ferie e di non poter mangiare né bere nient’altro se non il minimo indispensabile per vivere. Nel XIV° secolo, nell’America del Sud, è proprio questo ciò che succede. Gli schiavi che erano stati importati dall’Africa per mano americana, dovevano compiere lavori durissimi nei campi, che nessun uomo bianco aveva intenzione di svolgere, per ore ed ore. Molto spesso erano già a lavoro quando il sole ancora non si vedeva e fino a notte fonda dovevano rispettare i loro doveri, senza pause né modi per svagarsi un po’. Non avevano possibilità di ribellarsi, né di fuggire. L’unica cosa che procurava loro un minimo di sollievo, durante quelle giornate che sembrava non finissero mai, era il blues. Canticchiare li rendeva più felici e quel sudore, quella stanchezza e quella rabbia che avevano addosso, riusciva a trovare uno sfogo attraverso qualche frase cantata. Di quella vita che conducevano, nulla aveva senso, niente era giusto, tutto era disuguale. La loro unica certezza, per riuscire a trovare uno spicchio di luce in quell’infinito buio, era la musica, quei ritmi sincopati e quelle melodie, diverse da ciò che i bianchi, loro padroni, ascoltavano. Quella musica era speciale, quella musica era la loro unica via di fuga dal mondo reale. Se ci si pensa, però, non è anche ciò che, in piccolo, facciamo anche noi? Quante volte ti sei sentito perso? Quante volte hai provato a spiegare ciò che sentivi, ma nessuno è riuscito a comprenderti a pieno? Quante volte le lacrime hanno preso il sopravvento e non ti restava altro che lasciarle uscire, percorrere la tua guancia e farti crollare in un pianto disperato, come un bambino a cui si è rotto il suo gioco preferito? La musica era lì per te, pronta a consolarti nel momento del bisogno. La musica ti ha stretto a sé e tu l’hai lasciata fare. La musica ti ha curato le ferite che portavi da anni. Non importa che canzone o chi cantante ti ha trasformato quel taglio profondo in una cicatrice. La musica, in ogni sua piccola parte, è bella, ma, in fondo, lo è perché è varia.

Flavia Amorosini

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