Riflessioni e spunti con il professor Fabrizio Pirro
Ho voluto inaugurare questo nuovo anno con le parole di chi da anni studia e si occupa di lavoro dal punto di vista sociologico. Pertanto ho scelto come protagonista di questa intervista il prof. Fabrizio Pirro associato di Sociologia del lavoro presso la facoltà di Scienze politiche, sociologia e comunicazione dell’Università degli studi di Roma “Sapienza”.
Ha dedicato il suo percorso di studi scientifici ponendo un’attenzione particolare al “tema del lavoro” sotto l’aspetto sociologico. Come nasce questo suo interesse e perché?
Viviamo in una società in cui tutti noi siamo caratterizzati dal lavoro e dal lavorare come mai è successo nella storia precedente. Questa prospettiva mi ha interessato così tanto da attrarmi e farmi scegliere un percorso di studi iniziato ormai trent’anni fa.
Dal 1996 ha pubblicato libri e articoli dedicati al lavoro. Ci può tracciare una “mappa concettuale” che spieghi, a grandi linee, com’è cambiato il mondo del lavoro dagli anni ‘90 ad oggi.
Il concetto di lavoro pensato così dal mio maestro Aris Accornero dal Lavoro ai lavori cioè dal lavoro rilevante in termini di quantità (concetto legato al luogo, alle città ma anche alle tutele e alla stabilità) è cambiato. Io faccio sempre l’esempio dello stabilimento Fiat di Mirafiori dove fino agli anni ‘70-‘80 contava 70.000 dipendenti mentre ora ne ha 5.000. È cambiata la quantità di lavoro concentrata. Il lavoro come concepito in Occidente con riferimento al modello Taylor-fordista con grandi sedi che accolgono intere città a servizio si sta spostando in quei paesi considerati economie emergenti vedi Cina e Bangladesh. Dagli anni ‘90 in poi è cambiata la scala delle imprese. Questa si è ingigantita e ha visto grandi colossi inglobare piccoli produttori pur mantenendo nel prodotto di vendita diverse caratteristiche che fanno riferimento agli imprenditori iniziali. Altro punto importante sono conflitti legati alle tutele a cui eravamo abituati ad assistere che non sono più così evidenti e, anche questo “costume”, sta prendendo piede in altri paesi basta vedere il movimento di sciopero messo su dalle lavoratrici del tessile in Bangladesh. Non c’è più quell’idea di conflitto legata al mondo del lavoro e probabilmente non fa più neanche troppa notizia.
Come definirebbe la situazione lavorativa italiana?
La situazione italiana è complessa. Nonostante gli sforzi vi è una forte spaccatura tra nord e sud della società in cui viviamo. Il reddito di cittadinanza è stato un po’ la cartina di tornasole di tutto ciò ed ha posto la lente d’ingrandimento sul divario tra due poli mettendo in luce alcuni aspetti quali la necessità di trovare un lavoro e quella di avere a disposizione un reddito. Concetti non sempre ponibili nello stesso calderone. Altro problema è che il tessuto produttivo italiano non sono le grandi aziende ma i piccoli commercianti e le piccole e micro imprese che con fatica portano avanti le attività. Basti pensare al periodo della pandemia in cui tanti negozi hanno chiuso perché già d prima avevano forti difficoltà a mantenere il tutto. Far impresa non è semplice soprattutto in un contesto di competitività sempre maggiore e differenziazione enorme di servizi e prodotti. Un’economia spaccata in due geograficamente e dal punto di vista generazionale, nel senso che oggi l’instabilità lavorativa riguarda prevalentemente donne e immigrati come soggetti di primo accesso al mondo del lavoro. Ci sono (come sempre) soggetti garantiti e non garantiti e le nuove forme contrattuali vanno a toccare quelle fasce prima citate che non sempre riescono ad accedere o rientrare nel mercato del lavoro.
Cosa differenzia il contesto lavorativo italiano da quello internazionale?
Non è possibile, a mio avviso comparare situazioni lavorative di diversi Paesi caratterizzati da economia, storie e soprattutto numeri di abitanti diversi dai nostri. Va contestualizzata ogni singola situazione.
Molti dei personaggi delle nostre interviste sono expat che hanno scelto di cambiare la propria vita e che rifarebbero la stessa scelta tornando indietro poiché hanno trovato il loro posto nel mondo con un ottimo lavoro che gli permette di realizzare qualsiasi altra cosa vogliano. Cosa pensa a riguardo?
Questa tendenza c’è sempre stata. Andrebbero raccontate anche le storie di insuccesso per avere una visione del tutto. Ormai non costa nulla prendere un biglietto aereo e trasferirsi in Europa o altrove per tentare altro. Ora è tutto molto più semplice rispetto al passato. I nuovi expat hanno un background completamente differente. Le storie di successo sono legate a persone che hanno voluto conoscere e adottare usi e costumi del nuovo Paese.
Un altro argomento importante e attuale nel contesto del lavoro è il “reinventarsi”, mettendo da parte percorsi di studi ed esperienze pregresse per ricoprire altri ruoli. Come interpreta queste scelte?
Questa è una retorica che va molto di moda ma che riguarda alcune figure legate principalmente al lavoro autonomo e non dipendente anche perché prevede una responsabilità economica e giuridica che non tutti sono disposti ad assumersi. Non può essere la storia di tutti ma è legata a una elite.
Quanto, secondo lei, le scuole sono lontane dal mondo del lavoro tanto da non saper neanche indirizzare i ragazzi verso un corretto percorso che poi li porterà al lavoro della loro vita?
In alcune zone c’è una fortissima connessione tra sistema formativo e sistema produttivo. A mio avviso non c’è uno scollamento tra le due realtà. Basta pensare che il nostro sistema formativo “crea” le brillanti menti che poi hanno successo in tutto il mondo. Aggiungo, però, che con la continua evoluzione della richiesta da parte delle imprese sarebbe difficile profilare un preciso percorso di studi ad hoc.
C’è ancora disparità fra donna e uomo negli ambienti di lavoro e perché?
La nostra idea di operosità è ancora molto legata ad una questione di genere. Nonostante si siano fatti passi in avanti sul tema (vedi i permessi per i papà) ci sono ancora tanti vuoti da colmare. Non si è ancora trovato un equilibrio tra famiglia e possibilità di far carriera. Quello che si percepisce dai giovani ora è la priorità di realizzazione lavorativa a scapito dell’aspetto familiare che, in molti casi, viene considerato superfluo e inutile.
Secondo lei, su cosa si dovrebbe puntare per migliorare il tessuto lavorativo del nostro paese e dare più opportunità alle nuove generazioni?
Una collaborazione tra sistema politico, amministrativo e produttivo. Tutti i soggetti coinvolti dovrebbero essere parte attiva della cosa e ascoltare gli uni i bisogni degli altri cercando di risolvere il tutto nel migliore dei modi analizzando di volta in volta la specificità del territorio. È tutto un gioco di squadra.
Cosa consiglierebbe ai giovani che hanno appena concluso gli studi universitari?
Di continuare a studiare. Utilizzare tutto il loro tempo per continuare a imparare anche seguendo percorsi distanti da quanto fatto fino a quel momento. Le aziende prediligono un curriculum personale ricco fatto non solo di percorsi universitari ma anche di interessi che creino un filo conduttore e rendano unica la persona.
E a quelli che hanno, da tempo, abbandonato i banchi e sono ancora alla ricerca?
Queste purtroppo non sono situazioni semplici che non per forza ricadono sulla mancanza di capacità dei singoli personaggi. Consiglio sempre di non perdere la speranza e di continuare a guardarsi intorno.
Annalisa Iaconantonio