Intervista a Gabriele Tomei
Prima di conoscere nuove storie sui nostri “italiani nel mondo” ritengo opportuno fare un passo indietro così da avere un quadro completo del contesto lavorativo del nostro Paese. Per far ciò abbiamo intervistato il professor Gabriele Tomei , sociologo e attualmente associato dell’università di Pisa, che insieme ad altri colleghi è impegnato da anni nello studio del fenomeno delle mobilità e delle migrazioni. Il contenitore di questi studi è UbiQual -Centro di ricerche delle nuove migrazioni e mobilità qualificate, all’interno del quale il prof. Tomei ricopre il ruolo di direttore scientifico.
Come, quando e perché nasce UbiQual?
UbiQual nasce nel 2018 all’interno del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. E’ stata fortemente voluta da me e da altri colleghi a seguito di una ricerca che avevamo fatto, dal titolo “Cervelli in circolo” pubblicata dalla casa editrice Franco Angeli editore, attraverso la quale avevamo studiato i giovani expat dell’ateneo di Pisa che si trovavano all’estero. Questa ricerca ci aveva aiutato ad analizzare e conoscere meglio tutto quel mondo denominato “fuga dei cervelli”. Presi dall’interesse da ciò, abbiamo voluto creare un centro di ricerca che unisce professionalità e punti di vista diversi. Il nostro team, infatti, è composto principalmente da sociologi, ma al nostro lavoro abbiamo voluto affiancare diverse professionalità impegnate nella statistica e nella ricerca quantitativa.
In questo momento stiamo seguendo, per conto della Regione Toscana, una ricerca relativa agli espatriati dei quattro atenei toscani: Firenze, Pisa, Siena e l’università per stranieri. Parallelamente a questo nuovo lavoro continuiamo a studiare per ampliare e approfondire le nostre ricerche.
Il focus del vostro lavoro sono le “mobilità e le nuove migrazioni”. Secondo la sua esperienza si può affermare che questi fenomeni siano solo figli delle recenti crisi economiche o sono anche altri i fattori che hanno contribuito a dare vita a ciò?
I fattori sono ben altri. Nel 2017 abbiamo pubblicato un nostro studio che risponde proprio a questo quesito. Guardando i dati dell’AIRE – Anagrafe italiana residenti all’estero, è evidente come il trend che vede un gran quantitativo di giovani, con uno specifico diploma e laurea, trasferirsi all’estero inizi dal 2000, quindi ben prima delle crisi economiche e dell’attuale situazione dovuta dal Covid-19. I dati emersi danno vita a un chiaro quadro che spiega che esiste un problema strutturale del nostro sistema paese che non è in grado di trattenere, dare spazio e anche speranze a una quota di giovani. A questo si aggiunge anche che i nuovi millenials hanno il mondo come orizzonte familiare in cui muoversi. E’, quindi, normale spostarsi all’estero quantomeno per far esperienze. Mentre prima i giovani si spostavano all’interno del nostro paese, dai piccoli centri alle grandi città universitarie, adesso è normale spostarsi oltre confine non solo per l’esperienza erasmus ma anche per esperienze lavorative di breve o lunga durata.
Cos’è cambiato nel mondo del lavoro del nostro paese?
Da una parte abbiamo assistito al cambiamento delle forme organizzative delle forme lavoro. La precarizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il mondo che conoscevamo noi delle generazioni precedenti caratterizzato da contratti indeterminati o a lungo termine, sia nel pubblico che nel privato, non esiste più. Oggi esiste un mercato del lavoro frastagliato dove convivono segmenti di lavoro. Mi è capitato di incontrare persone che fanno due o tre lavori contemporaneamente per riuscire a far quadrare tutto. Dall’altra parte, nel mondo del lavoro, le componenti di conoscenza e alta qualificazione sono scomparse. Non essendoci, quindi, bisogno di troppo knowhow tanti ruoli diventano superflui perché il nostro mercato del lavoro è un po’ scivolato verso il bisogno di una forza lavoro definita “manovalanza” che ritroviamo nel settore agricolo, in quello dei servizi e nell’industria. Sembra quasi che la componente conoscenza si sia trasferita oltre frontiera.
Avendo intervistato diversi giovani “expat” abbiamo appreso che, all’estero, il mercato del lavoro richiede specifiche competenze e conoscenze. E’ possibile che parte del cambiamento debba partire proprio dalle nostre scuole e università?
In parte potrebbe essere così soprattutto se consideriamo formazioni professionali non immediatamente spendibili. Dal mio punto di vista il nostro sistema scolastico è ben saldo e prepara ancora persone capaci. Tant’è vero che, poi, quando trovano in Italia o all’estero un contesto capace di permettergli di spendere il loro capitale umano, sono molto produttivi. Quello che realmente manca sono dei settori produttivi che abbiano bisogno di questo capitale. Noi formiamo ottimi professionisti dei quali abbiamo perso la necessità. Dovremmo investire maggiormente nella formazione, per continuare a tenere alti i livelli, senza tralasciare la ristrutturazione del sistema produttivo.
Dai suoi studi emergono già dei dati capaci di darci un quadro di quello che sarà il mondo del lavoro nell’immediato futuro?
Seguendo principalmente le carriere degli studenti, non ho dei dati specifici capaci di rispondere a ciò. Considerando, però, che molte delle persone trasferitesi all’estero hanno rapporti con l’Italia e alcune di queste vorrebbero tornarci, bisognerebbe lavorare su questo target. Sarebbe opportuno, quindi, non considerare chi è andato via un fuggitivo, o chi è arrivato come un intruso, in quanto in entrambi i casi siamo di fronte a persone dotate di talento, capacità e voglia fare, tutti elementi che potrebbero rilanciare un mercato che purtroppo negli anni si è molto livellato su una competizione basata sui costi bassi. Questa non è una caratteristica che ci garantisce competitività perché troveremo sempre paesi che, per esempio, vendono prodotti ai prezzi più bassi rispetto a noi. La nostra competitività è di tipo qualitativo e innovativo anche dal punto di vista tecnologico ed è, appunto, su questo che dobbiamo continuare a puntare. Forse ce lo siamo dimenticati. Dovremo recuperare tutto quello che era il sistema aziendale che ci permetteva di eccellere negli anni ‘60/’70. Così facendo potremmo utilizzare i nostri giovani, sia in Italia che all’estero, per stringere nuovi accordi o come punti di contatto per nuovi progetti. A tal proposito, aggiungo che ci sono tantissime figure, arrivate dall’estero nel nostro paese, molto capaci ma con dei titoli di studio non spendibili.
Annalisa Iaconantonio