Lanciarsi ad alta velocità nottetempo a fari spenti e contromano, sfidarsi in gare di resistenza con i superalcolici, passare intere giornate in rete senza staccare la spina, assumere droghe, stendersi sui binari in attesa del treno per saltare giù all’ultimo momento, bruciarsi con gli accendini resistendo al dolore.
È solo uno spaccato minimo di una carrellata dell’orrore, che di anno in anno si diversifica grazie a macabri fantasie che propongono sempre sorprendenti novità.
È la realtà dei comportamenti a rischio.
In termini tecnici sono definiti tali quei comportamenti che espongono al rischio di un danno l’identità di chi li compie.
L’identità, la dimensione costante e qualificante della personalità di un individuo, può essere considerata su tre livelli. Quello fisico, cioè il corpo, in termini più generali, l’immagine corporea della persona. Quello psichico, cioè il modo di pensare, cognitivo, e il modo di reagire affettivamente, emotivo. Quello relazionale, cioè il modo di presentarsi e di rapportarsi agli altri.
Per rendere l’esempio della ricaduta sul piano identitario di un comportamento a rischio, pensiamo a un individuo che, sotto gli effetti di una sostanza stupefacente, decida di mettersi alla guida su una strada urbana e, raggiungendo una velocità superiore al limite massimo consentito, sbatta contro un muro, investa un pedone, con un conseguente ritiro della patente e arresto.
Il danno fisico è quello procurarsi lesioni fisiche. Il danno psichico è quello di una reazione emotiva traumatica, per esempio con un conseguente senso di colpa. Il danno relazionale è quello una “macchia”, per esempio un etichettamento, dell’immagine sociale.
Tra le varie classificazioni, si parla di tre tipologie di comportamenti a rischio:
- Quelli del passaggio all’atto, che affidano la ritualità a gesti esterni eclatanti, come nel caso del bullismo;
- Quelli del rifugio in sé, che affidano la ritualità a una chiusura in sé, come nel caso del consumo di certi tipi di droghe;
- Quelli delle pseudo allucinazioni, che affidano la ritualità nel viaggio in un “mondo altro”, come nel caso della dipendenza da internet.
Le strade del rischio, trasversali alle diverse fasi della vita, sono percorse prevalentemente dagli adolescenti, tanto da costituirne, oramai, un loro triste tratto identitario. Gli adolescenti che rischiano non sono necessariamente individui patologici: la maggior parte di essi, anzi, sono normalissimi adolescenti.
La domanda da porsi, allora, è come mai ragazzi, pur consapevoli dei pericoli legati a questo tipo di comportamenti, attraversino con sempre maggiore disinvoltura i sentieri del rischio.
A parte le variabili peculiari di ciascun adolescente che possono essere varie, la variabile di fondo che risponde al quesito può rimandarci proprio allo status adolescenziale, alla sua natura problematica.
La problematicità adolescenziale è data dal fatto che in questo periodo l’individuo non è più un bambino e non è ancora un adulto. È un adolescens, “crescente”, non un adultus, “cresciuto”, che attraversa una terra di mezzo: è chiamato a navigare non più sotto costa ma prendendo il largo.
Questa navigazione è segnata, intanto, da un tempo.
Il tempo in cui le strutture identitarie del ragazzo cambiamo: in tal senso, la letteratura concorda nel considerare come porta d’ingresso del periodo adolescenziale quella dello sviluppo puberale.
Cambia il corpo, cambia il modo di pensare, cambia il modo di relazionarsi agli altri.
Sul versante fisico, il corpo cambia in una maniera burrascosa e imprevedibile, a evidenziare un vertiginoso scatto di crescita.
Sul versante psichico, la trasformazione consegna all’adolescente un pensiero che conquista territori cognitivi e pulsa dimensioni emozionali nuovi e sempre più complessi nel connettere dimensioni ideali e reali.
Sul versante relazionale, l’adolescente si proietta in una rete di rapporti che cambiano sul piano della qualità e della quantità, rimandando un continuo processo di ri-conoscenza di sé attraverso l’altro.
Ma questo cambiamento, consistente al punto che se ne parla come di una vera e propria “seconda nascita”, non è lineare, risulta complesso, difficile e richiede un lavoro, quello di elaborare i contraccolpi prodotti dalla trasformazione.
Elaborare, dal latino ex, “da”, laborare, “lavorare”, significa “lavorare da”, “tirare fuori da”: in senso stretto, significa sviluppare un progetto coordinando e trasformando degli elementi di base, dando loro una sistemazione e una forma compiuta. In termini psicologici, l’elaborazione corrisponde al tentativo di dominare e integrare delle pulsioni potenzialmente traumatiche, cioè debordanti la abituale capacità di risposta dell’individuo, dando loro un senso e incanalandole in maniera funzionale allo sviluppo. In altre parole, l’adolescente deve elaborare gli aspetti potenzialmente traumatici del cambiamento identitario, comprendendone la fisiologicità, cioè la loro inevitabilità, e, soprattutto, la loro natura, ridefinendo un nuovo assetto identitario.
Il lavoro adolescenziale per affrontare il tempo del cambiamento diventa, sul piano fisico, quello di assimilare ed accettare il tempo di uno sviluppo che, nella sua disarmonicità, attiva sentimenti di paura e inadeguatezza. Sul piano psichico, l’adolescente lavora sullo iato che si avverte tra il proprio immaginario, inteso come precognizione e aspettativa, e la realtà. Sul versante relazionale, infine, il lavoro consiste nel dovere districarsi tra le lusinghe delle sicurezze acquisite innanzitutto con i genitori e poi con le agenzie formative maggiormente prossime nell’infanzia e la spinta a mettersi alla ricerca di nuove e incertissime vie nella nuova realtà.
L’adultoide, il Giano Bifronte frammentato nella visione di quello che è stato e di quello che sarà, diventa adulto quando riesce a dare un senso ai cambiamenti identitari ed ad elaborare la “nuova nascita”.
Non c’è un momento cronologicamente definito per segnare l’uscita dall’adolescenza: la culturalità di questo passaggio definisce un percorso che si oggettivizza a seconda delle diverse realtà spazio-temporali.
La crisi adolescenziale, che come spiega l’etimologia dal greco κρινω, “separarsi”, implica la capacità di separarsi dal vecchio, dalla vecchia immagine, coinvolge, innanzitutto, coloro che si relazionano con un adultoide, che non è più bambino e non è ancora adulto. Un lavoro difficilissimo che va visto in una logica circolare: da un lato, i ragazzi avvertono l’esigenza di differenziarsi dai genitori che sono quelli che hanno dato loro la vita, dall’altro lato, i genitori sono chiamati ad accreditare una immagine più adulta di figli che continuano a considerare quelli a cui cambiavano i pannolini.
Questa dialettica tra svincolo da un’appartenenza familiare e individuazione a un’appartenenza individuale ripropone il tema classico che propone costantemente l’esistenza, quella di muoversi sul crinale che divide il senso di appartenenza e il senso di separazione: promuove un cambiamento all’interno di un paradosso nutrito, da un lato, dalle spinte emancipatorie, dall’altro dall’ancoraggio ai classici sistemi di riferimento. Da sempre le culture sono consapevoli di ciò e hanno affidato il compito di marcare il passaggio attraverso specifici rituali.
Un tempo c’erano i riti di passaggio. Questi rituali affidavano al simbolico la funzione di accompagnare il passaggio e il cambiamento da uno stadio all’altro del ciclo di vita, di alleggerirne il peso in una cornice psicologica e sociale condivisa: di fatto, costituivano strutture protettive e contenitive. Socialmente definiti, permettevano ai ragazzi di trasgredire, ma all’interno di una cornice socialmente sancita, cioè riconosciuta dagli adulti e da questi sostanzialmente controllata.
Oggi, in un contesto sociale come il nostro, definito da livelli socio-culturali sempre più anomici e da contesti collettivi sempre più indefiniti, la presenza dei riti di passaggio si è fortemente indebolita: gli adolescenti confezionano rituali sempre più personalizzati e sfuggiti al controllo degli adulti. Questo processo di formazione dell’identità avviene oggi prevalentemente in modo autoriflessivo e individuale, a differenza di quanto avveniva nelle società più tradizionali, in cui si realizzava in modo preriflessivo e rituale.
La rottura di quel circolo all’interno del quale l’esecuzione rituale e i principi normativi si rafforzavano reciprocamente lascia il posto ai comportamenti a rischio.
Se in termini fenomenici, cioè di evidenza, i comportamenti a rischio rappresentano, come detto, comportamenti che espongono al rischio di un danno l’identità del soggetto che li compie, a livello epifenomenico, cioè di significato, si propongono come risposte che l’adolescente attiva a fronte della problematicità adolescenziale per affermare il suo diritto a esistere: una risposta paradossale, nella misura in cui affida al rischio un bisogno di protezione.
Nei fatti, questi comportamenti si rivelano pericolose scorciatoie, che si propongono come frutto dell’incontro tra motivazioni individuali e sistemi interattivi e simbolici in cui l’adolescente si muove.
Ogni stagione ha avuto i suoi rischi. Ogni stagione richiede agli adulti di non essere giudicanti ma ascoltanti, di non fermarsi alla superficie di comportamenti che sembrano folli ma che manifestano una logica: innanzitutto, quella di una richiesta di aiuto di fronte allo smarrimento identitario.
Luca Vallario